Valentino Zeichen “ermeneuta del destino”

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La scomparsa dell’autore nato a Fiume

“un’eco di Marziale nella Roma contemporanea”

È difficile valutare quale sarà l’eredità di un autore così isolato che non amava le commemorazioni e le mummificazioni critiche

di Gianni Cimador

 

 

«Poeta dandy e paradossale»: così Valerio Magrelli ha definito Valentino Zeichen in occasione della sua scomparsa, il 5 luglio 2016. Nato nel 1938 a Fiume, da dove è emigrato con la famiglia nel 1950 per stabilirsi prima a Parma e poi a Roma, Zeichen è un caso unico nel panorama della poesia italiana contemporanea, mai facilmente classificabile, anche per le sue scelte di vita radicali e alternative rispetto ai riti della cultura ‘ufficiale’: l’esperienza di profugo ha sicuramente segnato tutta la sua esistenza e la produzione letteraria in cui ritorna sempre il motivo dell’esule straniero in patria, che vede con sguardo straniato il mondo che lo circonda. Da qui deriva la sua visione lucida e disincantata delle cose, la costruzione di poesie in cui, come nota Magrelli, «egli imbastisce sempre un complicato congegno dimostrativo, una piccola macchina logica tramite cui esibire acquisizioni di tipo cognitivo». Proprio questo antilirismo e il suo andamento argomentativo lo rendono originalissimo e poco assimilabile alle tendenze e ai movimenti del suo tempo come il Gruppo 63, più interessato a una dimensione logico-speculativa che alle sperimentazioni legate alla frantumazione della sintassi e al rilievo del significante, cui si sente estraneo («Le trame delle estese ragnatele/ evocano lo spettro radiografico,/ scheletro di ogni riuscita poesia;/ serve a ricordare che il ragno/ è geometra dell’aria quanto/ il poeta lo è dello spirito»).

Proclamandosi ribelle su un piano esclusivamente individuale, Zeichen dichiara anche la sua estraneità rispetto a ogni funzione e strumentalizzazione politica della poesia: «Sono un impolitico come diceva Thomas Mann, non perdo tempo in giochi di ingegneria sociale, come ha fatto invece la gran parte dei miei coetanei, che hanno perso la testa intorno a questo problema, che forse non spettava loro».

L’esordio di Zeichen avviene nel 1969 sulla rivista Nuova Corrente: i primi componimenti si muovono in atmosfere surrealiste e del Surrealismo Zeichen manterrà sempre l’ironia e l’arguzia, la curiosità verso materiali eterogenei e verso gli oggetti e le situazioni della vita quotidiana, nei quali il soggetto si reifica, emblema di un tempo che ha perso spessore e si riduce sempre più a un livello superficiale. Per certi versi Zeichen anticipa già Il partito preso delle cose dell’amato Ponge.

Sin dagli inizi la sua cifra distintiva è il nichilsmo, sentito come forma di onestà intellettuale, alimentata da un gusto del paradosso che rovescia sempre anche i toni più drammatici: «La mia poesia è senza speranza. Non parlo di mondi onirici. Nella mia poesia entra la comicità, l’ironia, la precisione. Ci sento lo zampino della matrigna. E quindi la diffidenza verso il sentimento. O meglio: verso la menzogna del sentimento. Esiste una purezza della poesia alla quale sono fedele: l’esclusione del cuore. Non mento mai. Il meccanismo della scrittura può ingannare il lettore ma non la sostanza che abita la poesia». La «purezza» a cui allude Zeichen è quasi francescana, d’altri tempi: perciò è stato definito come un «neoliberty», «un neoclassico beffardo», «un asburgico a Roma», uno stravagante insomma nella tradizione italiana, l’esemplare di una «purissima razza incrociata».

Osservatore distaccato e nello stesso tempo immerso nelle contraddizioni della contemporaneità, Zeichen è ostile alle torri d’avorio della poesia e ai recinti troppo stretti delle situazioni di privilegio, anche nella scelta di vivere nella povertà della periferia romana come un «dandy baraccato» o un «Lord Brummel della miseria urbana». È una forma estrema di coerenza fra vita e opera, che cerca nella contemplazione delle rovine nuovi stimoli spirituali: «La poesia è sempre secondo me una catastrofe del sentimento, almeno quando ti misuri con le rovine, perché tutto è così irrimediabilmente, tutto ormai è già avvenuto. C’è solo lo spirito, bisogna salvarlo. Quindi lo spirito necessita di pronti interventi, bisogna essere la Croce rossa che salva lo spirito morente, agonizzante». I versi, la costruzione stilistica come ermeneutica dello spirito sono dunque la sola via di salvezza, nel senso di un incremento della conoscenza e della consapevolezza: «La poesia: annodate interiora./Si dipana nella prosaicità della lingua/e lascia scorgere allettanti Aleph/dall’inafferrabile momentaneità/gli accostamenti accidentali/fra le lingue ancora brulicanti/l’apparentano agli invertebrati/i nodi vengono al pettine dello stile/e il poeta deve alla sua perizia di fisiologo/il taglio dei versi» (La poesia).

Area di rigore, del 1974, è il primo libro di Zeichen, negli stessi anni in cui debutta Dario Bellezza, completamente diverso, anche se entrambi rifiutano il ruolo di poeta engagé: Zeichen è piuttosto un poeta giullare che rivendica la libertà di dire e colpire e lo fa con una leggerezza che spiazza e mette in questione tutti i luoghi comuni e le facili soluzioni di compromesso, affermando che «Per una più oscura ragione/ arde il mio cuore: per/ l’assenza di un vero scopo/ come fiammella inestinguibile/ più adatta al culto del nulla/ che alla passione amorosa». Già all’inizio si rivela la passione di Zeichen per una poesia che, attraverso un dettato analitico sempre chiaro e «normale», vuole scoprire i meccanismi e le leggi segrete che regolano i comportamenti umani e i processi mentali, la loro manifestazione nei vari ambiti della società, compresi quello militare, scientifico, tecnologico.

A proposito di Area di rigore, Pagliarani parla di «Un Gozzano dopo la Scuola di Francoforte», sottolineando l’originale incrocio di tendenza ludica e saggistica e individuando un antecedente importante della poesia di Zeichen che in qualche modo si rifà anche alla lezione di Palazzeschi, sviluppata poco dai poeti del Novecento.

Significativo è il modello del concettismo seicentesco e di Ciro di Pers, come pure è rilevante la suggestione del Barocco, da cui Zeichen trae l’attenzione per gli sfondi scenografici, il senso della recita continua che è la vita umana, la meraviglia di chi la osserva e non vi vede altro che un marchingegno assurdo e gratuito senza speranza di redenzione, una concatenazione infinita di metafore e segni che si richiamano come in un gioco di specchi: questa inesauribile avventura degli effetti di superficie caratterizza Pagine di gloria (1983) che forse è il capolavoro di Zeichen, l’opera che meglio esemplifica lo stile narrativo e prosastico di una poesia che è sempre interrogazione metafisica. Il problema è «salvare la poesia» in un orizzonte segnato da una «sterminata anonimia», senza conforti metafisici e senza valori assoluti: la strategia è nella «mossa del cavallo» che coglie illuminazioni nelle situazioni più imprevedibili e cerca il Sublime nelle «avventure degli altri» e negli aspetti più banali della realtà, esposti in piena luce, con la consapevolezza della relatività di tutto e del soggetto stesso («Non fissa come le stelle dell’infanzia/bensì mobile e mutevole/per mantenere vigile/la nostra illusione investigativa;/che non le si debba contendere l’eternità/né null’altra sua imitazione;/ma che se ne possano seguire/le tracce delle finte/con il solo leggero ritardo/della nostra scomparsa»).

Uno dei temi preferiti da Zeichen è certo l’eros, la casistica amorosa come emblema di dispositivo in cui ogni mossa deve essere studiata per raggiungere l’obiettivo ed evitare il rifiuto dell’amata, ingranaggio dotato di sensi e controsensi, paradossi e contraddizioni: con Museo interiore (1987) il poeta costruisce una singolare grammatica del sentimento amoroso, mettendo in campo diversi registri, dall’invettiva violenta all’invocazione dai toni dolci e soffusi, con un finissimo gioco letterario, che richiama la poesia d’amore greca e latina, le sue similitudini e i suoi stereotipi, con uno stravolgimento dovuto anche alla mescolanza di linguaggi tecnici e specialistici. Anche in questo caso, l’arte dell’agudeza non è gratuita e fine a se stessa, ma aspira a cogliere il senso cifrato delle cose, il segreto del destino. È una vocazione presente già nel cognome Zeichen che in tedesco significa segno, traccia, indissolubilmente legato a una immediatezza della parola e chiarezza della visione che si sprigiona da un simbolo araldico così come da un cartello stradale (“Se di me sopravviverà un nulla / di qualche movimento / sarà il cognome / scritto all’estremo della tabella / di una linea d’autobus / a patto che un altro poeta / acconsenta che col suo nome / si intitoli l’altro capolinea / così da poterci scambiare / delle visite”).

Il tema del tempo e della sua natura molteplice, inafferrabile, è al centro di Metafisica tascabile (1997) altro capolavoro, in cui la poesia di Zeichen affronta la complessità contemporanea concentrandosi su oggetti quotidiani, situazioni apparentemente banali, merci, fatti minimi, gesti, dove si insinuano in maniera imprevedibile ricordi, affetti, sensazioni imprevedibili. Zeichen oscilla sempre tra senso di gravità delle cose viste nella loro precarietà, con una strisciante e sempre controllata sofferenza, e la leggerezza di una fantasia raffinata che utilizza generi diversi, passando dall’haiku all’aforisma o all’epigramma e traducendosi in efficaci invenzioni di pensiero: si tratta appunto di elaborare una metafisica «tascabile» nella prospettiva di un Occidente che non ha più nulla di nuovo da dire ed è vittima dell’ «invincibile Nulla/ della tecnica» e della sua «dolcificante banalità». In questo contesto è sempre più decisivo l’esercizio dell’intelligenza e cambia anche il ruolo del poeta che «Discende da animali virtuosi/per selezione di ibridi e/assume le nuove sembianze/di uccello araldico./Non rapace che si eleva di quota/per poi abbassarsi alle prede,/ma pilota angelico che spazia/contemplando la bellezza»: una bellezza che è sempre più frammentata, dispersa, localizzata, ma che può costituire ancora una ragione di speranza e di rigenerazione.

L’esigenza di una «intelligenza organizzata» porta Zeichen a guardare a modelli come Ennio Flaiano, Karl Kraus, Oscar Wilde, maestri dell’aforisma e del ragionamento sintetico, di un eclettismo sempre difficilmente classificabile: in particolare opere come Aforismi d’autunno (2010) rivelano questa impronta, con un lavoro attentissimo sulla sostanza segreta delle parole.

Anche quando riflette sugli eventi storici, Zeichen cerca nei dettagli e in singole figure o fatti quotidiani la meccanica delle cose: libri come Gibilterra (1991), dove il poeta interroga le «macerie» della Seconda Guerra Mondiale ancora insistenti nella scacchiera disgregata del presente, rivelano ancora una volta il nichilismo del poeta e la sfiducia verso la Storia che si presenta come una macchina anomala senza un senso vero capace di renderne ragione.

Questa sensazione di vanità di fronte ai relitti e alle stratificazioni della Storia percepite come inganni del tempo è particolarmente intensa nel contesto di Roma, dove Zeichen si è sempre sentito come un «ospite tollerato»: in Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (2000), la Capitale è protagonista assoluta in tutta la sua ambiguità, nella sua natura bifronte di entità fisica e sentimentale, crudele e avvolgente allo stesso tempo. Già Moravia aveva parlato della poesia di Zeichen come «un’eco di Marziale nella Roma contemporanea».

Proprio Marziale è un altro riferimento centrale per l’autore che, soprattutto nell’ultimo periodo e a partire da Neomarziale (2006), trova nell’epigramma la misura ideale della sua scrittura, adatta a esprimere anche una tensione didascalica che si rivela forte soprattutto in Casa di educazione (2011): giustamente Roberto Galaverni ha scritto che «nella poesia di Zeichen le principali prerogative e risorse dell’arte dell’epigramma vengono messe a frutto con perizia e maestria: l’arguzia, il cortocircuito intellettuale, il controsenso, il motto di spirito, e insieme un discorso poetico asciutto, leggermente epigrafico, mai interlocutorio o semplicemente descrittivo, ma tutto teso al risparmio che è proprio dell’azione efficace, del verso che vuole assolutamente colpire la propria preda. Questo poeta, insomma, non perde mai di vista il proprio obiettivo, che non è mai soltanto polemico, ma in senso proprio concettuale». Con queste parole possiamo descrivere tutta la parabola poetica di Zeichen, che apparentemente sembra antimoderna ma in realtà si propone di elaborare, attraverso il suo vigoroso e paradossale concettualismo, una nuova moralità che rilanci anche, dopo la morte della «sensibilità», la funzione della fantasia e dell’immaginazione: «Io dico che vanno a braccetto. Esiste un’immaginazione concettuale e c’è una fantasia che apre al possibile. È ciò che non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è l’imprevedibile…».

Il romanzo La sumera, pubblicato nel 2015 e candidato al Premio Strega, avrebbe forse rappresentato l’inizio di una nuova fase nel percorso di Zeichen. È difficile valutare quale sarà l’eredità di un autore così isolato che non amava le commemorazioni e le mummificazioni critiche, come dichiara esplicitamente già in una poesia del 1983: «Amici,/ sparlando di me nei giorni/ non siate affrettati/ coniugandomi a verbi del passato/ ma dosatemi con risparmio/ all’indicativo presente/ e non impensierite/ ché di questo soggetto del verbo/ non rimarrà ingombrante memoria».