Prima dell’Esodo

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di Walter Chiereghin

 

Il titolo del libro è di per sé la premonizione – o forse l’epilogo – di un destino e di una condizione che implica estraneità e più o meno sottaciuta avversione: Foresti. Il termine era in uso – in un tempo non troppo remoto – prevalentemente nei dialetti veneti per definire l’estraneo, il forestiero, lo straniero e spesso tale inospitale appellativo si riservava ai “foresti” più prossimi, quelli del villaggio vicino, percepiti proprio per tale prossimità come pericolosamente ostili, a maggior ragione se utilizzano un linguaggio diverso e incomprensibile. Cucita addosso come la lettera scarlatta del romanzo di Nathaniel Hawthorne, quella definizione di “foresto”, anche quando ogni ragionevolezza indurrebbe a considerarla superata, rimane a marcare un’indelebile estraneità, che finisce così per divenire una condizione esistenziale, come in certa misura è stato non solo per Silvia Zetto Cassano, autrice di Foresti, ma anche per la sua famiglia, scandagliata riesumando dalla memoria dei racconti ascoltati innumerevoli volte nell’infanzia, ma anche nelle pazienti ricerche d’archivio che la scrittrice s’è imposta per l’esigenza di rendere quanto più possibile aderente alla realtà la sua appassionata narrazione.

Un libro che è dunque già difficilmente incasellabile per genere: non propriamente narrativa, né propriamente storia, non è nemmeno solo memorialistica, anche se è un po’ di tutte queste cose assieme, narrando le vicende di cinque donne, rispettivamente la trisavola, la bisnonna, la nonna e la madre dell’Autrice, che a sua volta è la quinta protagonista di queste storie nella Storia, e anche di lei vengono narrate le vicende fino ai suoi dieci anni, età nella quale Silvia Zetto abbandona definitivamente Capodistria per trasferirsi, assieme alla madre e alla nonna, oltre la linea di demarcazione tra la Zona B e la Zona A del Territorio di Trieste, approdando quindi nel capoluogo giuliano e sancendo con ciò la sua qualità di esule, piccola “foresta” in patria.

Le vicende familiari si dipanano, seguendo all’apparenza le immagini fotografiche conservate entro un album di famiglia, che fissa nelle pose scattate da fotografi di strada o di studio volti, posture e abiti delle donne che sono il fulcro della vicenda famigliare, degli uomini che sono stati i loro consorti e dei bimbi che costituiscono l’anello di congiunzione tra una storia e l’altra, a comporre una sorta di biografia collettiva che s’intreccia, talvolta anche drammaticamente, con le vicende storiche di questa terra. Terra che ha assistito al succedersi di organizzazioni statuali diverse nel corso del secolo che, suppergiù dal 1866 (anno del matrimonio della prima delle “nostre” donne, ma anche della Terza guerra d’indipendenza dell’Italia) al 1955 (anno in cui la Zetto lascia per sempre l’Istria, ma anche anno di costituzione del Patto di Varsavia). Copre dunque all’incirca novant’anni il raggio della narrazione presentata in Foresti, l’intervallo temporale che abbraccia cinque generazioni, che include due guerre mondiali, mentre sulla terra che costituisce il teatro delle vicende narrate esercitano in rapida successione la sovranità l’Impero austro-ungarico, il Regno d’Italia, la Germania nazista dell’Adriatisches Küstenland, la Repubblica popolare federativa di Jugoslavia.

Le storie che vengono raccontate ai lettori parlano tutte di gente di modesta o modestissima condizione sociale, famiglie di contadini, non certo di latifondisti, ma di piccoli proprietari che s’ingegnavano a sbarcare il lunario come potevano, che dovevano contentarsi di prendere in moglie una di fuori, una “foresta”, gente che mandava i figli – e persino le figlie – a scuola perché era obbligatorio. Gente che tuttavia oscuramente comprendeva che proprio dalla scuola le sarebbe venuto l’impulso a crescere socialmente. Gente di provenienze etniche diverse, persone che solo col passare degli anni e l’accavallarsi di vicende storiche anche drammatiche, soprattutto dopo il primo conflitto mondiale, impararono a considerarsi antagoniste, identificando sé stessi e i propri più vicini parenti come appartenenti a un’inesistente etnia incontaminata. Ma anche persone che a questa fuorviante visione si sottraevano, come Francesco che, giunto quasi al termine dei suoi giorni e in prossimità del baratro del secondo conflitto mondiale, così compendiava il suo giudizio su Mussolini e sulla sua politica: “Quel paiazo de omo. Prima i slavi e adesso anche i ebrei. No va, no va, rispeto ghe vol, questo i me ga insegnà, in Istria in quela volta tutti podeva parlar come che voleva e Franz Joseph iera l’imperator de tuti, slavi, tedeschi, bosniaci, croati”.

Il piccolo mondo antico dei primi capitoli viene via via smarrendo alcune delle sue caratteristiche, per ridursi alla fine del libro in un microcosmo attraversato da reciproche diffidenze, da risentimenti e rancori che, complice un regime non certo equanime e rispettoso nei confronti delle comunità italiane dell’Istria, ha indotto gli italiani dell’Istria a riparare altrove, lasciando le case e i luoghi dove vivevano da generazioni.

La narrazione prende avvio dalla matriarca Caterina Milich coniugata Grebaz, “foresta” di Caroiba, che si accasò a Santa Domenica di Visinada, e poi da sua figlia Maria, coniugata Cossetto, che dovette seguire il marito Giuseppe, usciere a Pisino e poi a Cervignano e infine a Capodistria, quando si trattò di abbandonare la località del Basso Friuli perché a Sarajevo qualcuno aveva ammazzato l’arciduca Francesco Ferdinando e la sua consorte e la prevedibile guerra con l’Italia avrebbe collocato il fronte proprio da quelle parti.

Con Anna, figlia di Maria, si entra nel campo della conoscenza diretta da parte della scrittrice, che ha conosciuto la nonna (“per i bambini le nonne non sono vecchie, sono nonne e se sono buone sono anche belle”), ma si entra a pieno titolo anche nelle fasi più drammatiche del “secolo breve”, a cominciare dalla Grande guerra, che ad Anna portò via, per anni, il marito, spedito in Galizia, poi prigioniero dei russi, che per tornare a casa dovette attraversare, parte in nave e parte a piedi, mezzo mondo. La storia, si sa, non bussa, ma entra spavalda nelle case, sfondando la porta e così fu per Anna e per tutti: la fame nel ’17, sola con i due figli maschi piccoli, poi la malattia che si portò via il secondogenito Pino, il fascismo, le vessazioni contro gli slavi, poi anche contro gli ebrei, Guido, il primogenito, il primo della famiglia a laurearsi, rapito anche lui dalla guerra, la seconda stavolta, ma riuscì a cavarsela, trovando poi un posto di magistrato a Belluno, ma pochi anni dopo morì anche lui. Rimasta sola con due figlie avute dopo il ritorno del marito dalla guerra, s’ingegnò a tirare avanti come poteva. E Gemma infine, la madre di Silvia, cui spetterà la decisione di lasciare infine l’Istria, la cittadina che di giorno in giorno si faceva più estranea per l’esodo e per le pressioni del regime, e condurre la famiglia ormai solo femminile all’esilio di Trieste.

In tutto questo gineceo sono ovviamente presenti anche le figure maschili, i mariti, i padri o i figli delle protagoniste, anche se richiamati nel libro della Zetto quasi, si direbbe, per un obbligo di completezza. Fa eccezione la vicenda, tragica, di Sergio, padre dell’Autrice, che sposò Gemma nel ’44 (“perché sì, per mettere la vita al posto della morte che in quel tempo era dappertutto”) e visse nella manciata d’anni che gli rimanevano nelle incertezze del surreale epilogo delle fasi conclusive della guerra e dell’instaurazione del nuovo regime. Sedotto in parte dalle idee socialiste con le quali si presentavano i vincitori, accettò per qualche tempo un incarico pubblico, che alla fine fu costretto ad abbandonare, rinfocolando così i rancori contro di lui che provenivano sia dalla parte degli italiani che degli slavi. Insicuro per natura, la sua condizione gli si palesò ogni giorno più insostenibile, fino al ricovero di due soli giorni nel manicomio di Trieste, dove la morte, forse coadiuvata da un’improvvida iniezione praticatagli da un infermiere, pose fine al suo smarrimento, al suo senso di inadeguatezza, cui lo aveva costretto la Storia impietosa di questa terra in quegli anni difficili.

 

 

Copertina:

 

Silvia Zetto Cassano

Foresti

Comunicarte, Trieste 2016

  1. 178, euro 19,00