Devozioni d’inverno

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Le poesie di Giancarlo Pauletto, critico d’arte di Portogruaro

di Walter Chiereghin

 

Non conosco di persona Giancarlo Pauletto, o almeno non lo conoscevo quasi del tutto prima di aver letto Devozioni d’inverno, una raccolta di poesie del 2020 che mi è stata affidata dal comune amico Franco Dugo. Conoscevo, poco ed episodicamente, la sua attività di critico d’arte, per averne letto dei saggi su Bruno Chersicla (Un po’ di progetto, un po’ di magia, nel catalogo della mostra, curata da Pauletto, “La città promessa”), una recensione sui Basaldella, in occasione della mostra sui tre artisti allestita nel 2010 a Villa Manin e un intervento su Dugo (Indagare l’apparenza indagare l’essenza, nel catalogo – edito da Marsilio – dell’antologica sul pittore goriziano curata da Franca Marri nel 2000). In rapporto a una lunghissima e prolifica “carriera” di critico militante, ma anche di storico dell’arte e di narratore, sono poca roba le mie letture, ma sufficienti a suscitare un’adesione ammirata alla sua capacità espressiva, rifuggente da qualsiasi ermetismo e invece impegnata a stabilire con nitore collegamenti talvolta arditi ma sempre assai calzanti tra la materia su cui si esercita il suo sguardo critico e quanto altre letture, altre conoscenze ed altre esperienze vissute hanno stratificato nella sua identità di uomo di cultura. Adesione ammirata, certo, ma anche una venuzza d’invidia, se il lettore dei suoi testi è uno che, come chi scrive, s’ingegna come può a percorrere con ben più scarsi mezzi la stessa sua strada per produrre una comunicazione onesta e chiaramente impostata atta a rendere nota a chi lo legga la sua riflessione critica.

Del tutto incognita per me la sua vena di poeta, che ha un antefatto ritengo (a lume di naso) importante in Tra fuoco e scuro, un volume di liriche pubblicato nel 2006, ma contenente testi nati fin dalla seconda metà degli anni Sessanta. Il libro di cui parliamo, invece, rivela una produzione più recente: versi liberi ordinati nelle quattro sezioni che compongono il volume, nati tra il 2007 e il 2020, salvo alcuni componimenti in rima risalenti quasi tutti agli anni Novanta e Duemila.

Già a partire dalla prima sezione, “Un trono di nuvole” (chissà se c’entrano i cieli di tanta pittura di Dugo con tale intitolazione?) si presentano con immediatezza, fin dai primi versi, alcuni temi e alcune modalità espressive ispirate alla contemplazione della natura – soprattutto di campi e di montagne – che si pone in muto colloquio con l’esperienza, la sensibilità e gli stati d’animo del poeta. Il paesaggio, cioè, si fa specchio che riflette all’autore la sua propria immagine, inscritta in una figurazione paesaggistica che blandisce e stimola la sua coscienza di sé: «Sempre all’improvviso mi sorprende / la meraviglia d’essere, un trono / di nuvole, un vento che aliti dai broli / mi specchiano esistente». Oppure è tale da generare una similitudine che introduce una profonda riflessione sulla propria condizione esistenziale: «Come un tesoro d’acqua / il tempo si assottiglia, scarno rivo / più non disseta. // Adesso che saprei non domandare. // Ma sono un mendicante che possiede, / ripeto al giorno, all’erba / illuminata, alle rose / che oscillano sul gambo».

C’è anche altro, naturalmente, molto altro. C’è per esempio la dimensione del ricordo, dolcissima: «Nella memoria ha luce la stella / di un amore bambino, scoccato / dal fondo degli occhi nella penombra / di un favoloso rosario di maggio. // Aveva un piccolo velo / di trine, un profilo / sgusciato, un timoroso / sorriso nascente. // Fu consapevole e vero / dolore, muto nello splendore / del bene».

Nella seconda sezione, “Vita contro vita”, si affievolisce, fino quasi a sparire, l’intento figurativo di paesaggista in precedenza esibito, per lasciar posto a un’introspezione elaborata in solitudine, ambientata frequentemente tra sogno e veglia, in uno iato notturno («Accorda il dormiveglia alla notturna / pace dell’erba, dentro le radure / prossime ai canali dove fermamente / la luna si compone con le stelle ») che sovente trova nelle altre specie animali il corrispettivo  – e l’interlocutore muto – della propria condizione umana, come nel canto sommesso che inaugura la sezione: «Si avverte appena il battito / del cuore, nel compatto / buio della carne: per esso – / come le tortore, come le formiche – / partecipiamo al transito del mondo». E poco dopo: «[…] il vortice mellifluo / della serpe che s’interra / tocca d’ombra / il cuore appena desto»: e poi mute di cani, un calabrone, altri insetti, mosche, zanzare, persino «[…] zecche dondolanti sopra gli alti / steli del prato mattutino». Si tratta di un bestiario umile e nostrano, atto a rinnovare fratellanze francescane o reminiscenze sabiane, magari con un merlo al posto della capra del poeta triestino: «Mi fissa con occhio / pungente il giovane / merlo, dal mezzo / del prato misura / la sua lontananza».

Nella sezione successiva, che offre il titolo all’intero volume, si affievolisce il portato figurativo, diventano rarefatte le immagini per lasciare il posto a riflessioni sul tempo e sul suo rapido fluire, quasi che, varcata “la detestata soglia” evocata dal Leopardi, il poeta fosse indotto a pensieri più riepilogativi, «adesso che sospinto / varco lo spazio nudo / dell’ultima stazione». La prospettiva da cui Pauletto osserva oggi se stesso e la propria esperienza umana è modificata, come si avverte in un testo che esplicitamente richiama Le ricordanze del poeta di Recanati, in cui viene evocato il ricordo del fratello scomparso: «Da che tempo / viene la memoria, da che culmine / di aspra adolescenza e come / la tua solerte, appena giunta / maturità, venne recisa, fratello / a me più caro e ora, / per me vecchio ormai, / fratello come un figlio». In altri punti di questa stessa sezione si disegna un’età con cui il poeta si confronta con virile consapevole compostezza, tanto nell’evocazione del suo vissuto quanto nella pienezza del suo presente, accogliente nei confronti di figlie e nipotini, pieno di discrezione nella prefigurazione del futuro («Che non resti in disordine il tuo posto / che non si aggravi / la pena di chi viene»). E non vale la gravezza dei temi qui affrontati a rastremare un acuto attaccamento alla vita, anche esplicitamente dichiarato: «Voglio bene alla mia vita come a un’acqua / piana che riveli la sua minima / andatura in grandi / curve verso il mare e non frastorni /più».

Una poesia che, proprio come (per il troppo poco che ne so) la prosa critica di Giancarlo Pauletto non recede dal suo proposito di chiarezza e di onestà espressiva, anche quando limitata nella sua libertà, come avviene nei dodici sonetti e nelle sette sestine di endecasillabi che compongono l’ultima sezione del volume, risalenti a un periodo anteriore ai versi liberi che compongono le tre parti di cui qualcosa abbiamo almeno cercato di dire.

 

 

Giancarlo Pauletto

Devozioni d’inverno

Concordia Sette, Pordenone 2020

  1. 138

senza indicazione di prezzo