Io, Bouvard e Pecuchet

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I due personaggi di Flaubert, lettori indefessi e insegnanti improbabili

di Silvia Zetto Cassano

Il signor Bouvard e il signor Pécuchet s’incontrano per caso su una panchina, e non si lasciano più. Sono due ometti. Nei suoi appunti Flaubert, di loro, dice che «Non sono propriamente degli imbecilli, hanno molti sentimenti ed embrioni d’idee che fanno fatica a esprimere» e soprattutto che «per il solo fatto della loro amicizia, si sviluppano intellettualmente».

Leggono di tutto, forsennatamente e poi mettono in pratica ciò che i libri hanno loro indicato. Nessuna esperienza sfugge alla loro voracità, nessun fallimento li fa precipitare nella noia o nella delusione. Io li trovo adorabili. Nell’ultimo capitolo, dopo averle provate tutte, si dedicano alla pedagogia. Per scriverlo Flaubert si documenta «Mi servirebbero cose caratteristiche come programmi di studio e metodi. Voglio far vedere che l’educazione, comunque sia, non significa granché e che la natura fa tutto o quasi tutto».

Imparare-insegnare sono connessi. «Si vede l’errore di imparare moltiplicato dall’errore di insegnare» commenta Raymond Queneau. Quei due cercano e trovano allievi, mostrano gli animali, le piante, spiegano, nominano.

«Gli uccelli han di solito piume; i rettili, scaglie; e le farfalle appartengono alla classe degli insetti. Si portavano dietro la reticella per acchiapparle; e quando riusciva a catturarne una, Pécuchet, tenendola delicatamente tra due dita, faceva notare agli allievi le quattro ali, le sei zampine, le due antenne e la minuscola proboscide cartilaginosa che succhia il nettare dei fiori. Coglieva delle erbe medicinali sull’orlo dei fossati, ne diceva il nome; e se capitava che il nome lo ignorasse, per non perder prestigio agli occhi degli scolari, lì per lì lo inventava. Niente di male, del resto, perché nella botanica, la nomenclatura è la parte meno importante.

Della pianta, scrisse sulla lavagna la seguente definizione: “Ogni pianta ha delle foglie, un calice e una corolla che racchiude un ovario e un pericarpo, il quale contiene il seme”. Ordinò quindi agli allievi d’uscir nei campi e cogliere la prima pianta che trovassero. Vittorio tornò con dei ranuncoli, Vittorina con una piantina di fragola. In nessuno dei due fiori c’era l’ovario. Bouvard, che della propria scienza non era altrettanto sicuro, mise sossopra tutta la biblioteca e nel Redouté per signore trovò il disegno d’un giaggiolo: l’ovario non era dentro la corolla, ma sotto i petali, nel gambo.

C’era in giardino della robbia pellegrina e dei mughetti in fiore; queste rubiacee non presentavano alcun calice; per cui era erronea la definizione scritta sulla lavagna. – Le rubiacee fanno eccezione, – disse Pécuchet. Ma volle il caso che scorgessero nell’erba una sherardia: il calice ce l’aveva. – Al diavolo! Se neppure le eccezioni sono vere, di che fidarsi?»

Dalla pedagogia alla filosofia, è un attimo. Bisogna pur trovare un senso al Tutto. Una morale deve pur esserci. «Può avvenire – e avviene spesso – che ci faccia piacere una cosa che nuoce ai nostri simili; l’interesse personale differisce dal bene, perché il bene è per se stesso irreducibile. (Qui gli alunni non capivano più). Pécuchet rimandò alla lezione successiva la giustificazione logica del dovere. “Sì – gli osservò Bouvard – ma che cosa sia il bene non l’hai detto”. “Come si può dire che cos’è? Il bene non si definisce: si sente”. La morale allora non si potrebbe insegnare che a chi ha già morale, e il corso di Pécuchet s’arrestò alla prima lezione».

Il percorso dei due amici si blocca. E si blocca anche Flaubert: il libro resterà incompiuto. Abbiamo solo i suoi appunti per sapere come potrebbe finire la loro storia. Ci dice che a un certo punto «si sviluppò nella loro mente una facoltà penosa, quella di vedere la stupidità e di non tollerarla più. Cose insignificanti bastavano a rattristarli; le pubblicità dei giornali, il profilo di un borghese, una sciocca riflessione ascoltata per caso».

Forse è il signor Flaubert che si rattrista. Ma loro no: non sarebbe in linea con il loro carattere. Flaubert esita, ma poi gli viene un’idea e la fa venire anche a loro.

«Buona idea accarezzata in segreto da entrambi. Se la dissimulano a vicenda. – Di tanto in tanto sorridono quando ci pensano – poi se la comunicano contemporaneamente: copiare.

Copiano a caso tutti i manoscritti e tutta la carta stampata che trovano, carta da tabacco, vecchi giornali, lettere perse, poiché credono che siano cose importanti e da conservare. Ne hanno molti, perché nei dintorni c’è una cartiera in fallimento e là comprano mucchi di vecchie carte.

Ma sentono la necessità di fare una classificazione… allora ricopiano su un grande registro commerciale. Piacere che c’è nell’atto di ricopiare».

È vero, ricopiare è un piacere: lo sa anche Italo Calvino: «Il copista viveva contemporaneamente in due dimensioni temporali, quella della lettura e quella della scrittura; poteva scrivere senza l’angoscia del vuoto che s’apre davanti alla penna; leggere senza l’angoscia che il proprio atto non si concreti in alcun oggetto materiale»

Anche Bartleby è un copista. È l’unica e l’ultima cosa che fa. Ma, al contrario di lui, Bouvard e Pécuchet non sono soli, sono in due, sono la più perfetta delle possibili coppie. Quando si congedano da noi stanno affrontando l’ultima delle loro grandi imprese.

«Finire la scena dei due bonshommes chini sullo scrittorio, mentre copiano».

Continuano a copiare, ‘nella gioia più pura e integrale’ scrive Queneau. Anch’io, come lui, me li immagino così: felici del loro fervore e, addirittura, capaci di elaborare idee sul futuro del mondo. Flaubert assegna a Pécuchet il pessimismo. Nel futuro, secondo lui «non ci saranno più ideali, religione, moralità; l’America avrà conquistato la terra, […] marioleria universale. Tutto sarà un’unica vasta baldoria d’operai. Fine del mondo per cessazione del calorico». Per Bouvard, invece «il male sarà eliminato con l’eliminazione del bisogno. La Filosofia sarà una religione. Comunione di tutti i popoli. Feste pubbliche. Si andrà sugli astri – e quando la terra sarà esaurita, l’Umanità si trasferirà verso le stelle».

Ognuno di noi può scegliere tra l’ipotesi di una marioleria universale e la prospettiva di abitare le stelle. Bel finale, monsieur Flaubert. Non l’ha scritto ma l’ha pensato. Mi basta che non me li abbia fatti morire, quei due, come ha fatto con madame Bovary. Sono contenta.