Donna non rieducabile

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di Adriana Medeot

 

Il suono struggente di un’arpa, accenni di una melodia che diventa lamento, discordanza, litigio, rumore. Buio/luce. Luce gialla, calda, che disegna lentamente i contorni del corpo di una donna, ne illumina il volto, per svelare lentamente gli elementi di una scenografia essenziale: un tavolo, una sedia, due.

Primo quadro: cronaca di una giornata qualsiasi a Kurcialoi, Cecenia. Asia, 2006, 5 agosto.

Polvere in aria. Le case sono grigie, non chiare come ci si aspetterebbe in Asia, grigie. Polvere in aria. La piazza è piccola, piena di gente, soprattutto donne. Su un lato le impalcature del gasdotto, che attraversa tutta la Cecenia. Enorme, maiuscolo: il paese gli è cresciuto intorno come un fungo Su un traliccio del gasdotto, in fondo, c’è qualcosa. Polvere in aria. È una testa. Immobile, mozzata. Gocciola, lentamente, precisamente, gocciola, gocciola, gocciola.

È il possibile sguardo di Anna Politovskaja, non il testo dello spettacolo, ma alcune righe ricostruite nel suo ricordo. È la possibile prosa di Anna Politovskaja, fatta d’immagini, di istantanee, che intende descrivere con parole semplici e senza artifici, ma efficacemente quanto vede. E ciò che vede è terribile, inumano. La giornalista si trova in una delle sue tante missioni in Cecenia, per documentare la lunga guerra tra il piccolo stato dichiaratosi autonomo e il gigante russo, che non molla. Gli interessi in gioco sono sempre gli stessi, sempre quelli per cui si fa guerra: petrolio, gas, fonti di energia non rinnovabile.

Ottavia Piccolo è splendida e intensa interprete del monologo Donna non rieducabile, andato in scena al Miela dall’ 11 al 13 aprile per Altri percorsi del Teatro Stabile Rossetti. Il testo, scritto da Stefano Massini nel 2007, pochi mesi dopo l’assassinio della giornalista russa viene ormai rappresentato da più di dieci anni sui palcoscenici internazionali in sedici differenti versioni: opera duttile, o meglio “materiale scenico” come ama definirlo l’autore stesso, secondo il quale è compito del regista decidere quali scelte operare. In Germania infatti la messinscena richiese otto attori, in Belgio tre, in Francia nove, ma fu anche un monologo di Mireille Perrier. In ogni caso lo spettacolo non smette di emozionare, d’indignare e di scuotere le coscienze, non solo perché dopo più di dieci anni l’omicidio è rimasto impunito, ma specialmente perché Stefano Massini ha trovato la chiave per parlare di argomenti attuali, ancora grondanti di cronaca, sdoganandoli dal contingente, dal quotidiano, per farli diventare paradigmatici, azzarderei universali. Epica post-moderna? Basta azzardi, fermiamoci qua.

Chi era Anna Politovskaja? Nata a New York il 30 agosto del 1958 era figlia di due diplomatici sovietici di nazionalità ucraina in servizio presso l’ONU. Viveva a Mosca con la sua famiglia, un marito, due figli. Amava il suo lavoro e lo faceva bene, scriveva per Novaja Gazeta, quotidiano russo di impronta liberale. Una cronista tenace e implacabile Anna: aveva vissuto per lunghi periodi in Cecenia, in condizioni di precaria sopravvivenza, per documentare la guerra. Denunciava con le sue parole il mancato rispetto dei diritti civili, metteva ombra e poneva domande su un governo prepotente imbellettato di democrazia. Il suo era giornalismo sul campo, non certo quello comodo degli hotel a cinque stelle. Anna dava voce alle ingiustizie che non trovano strada facile per esser ascoltate, smascherava gli interessi e le manipolazioni del potere, prendendo alla lettera l’assunto più semplice e più difficile della sua professione: “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.” Nel 2002 aveva preso parte alle trattative tra il governo e i terroristi ceceni che tenevano sotto tiro più di 800 ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca. Nel 2004 non era riuscita a raggiungere Beslan, in Ossezia, dove un commando di ribelli fondamentalisti islamici e separatisti ceceni aveva occupato una scuola, sequestrando circa 1200 persone fra adulti e bambini, perché era stata avvelenata mentre stava viaggiando in aereo. Si era ripresa, Anna, ma poté visitare quei luoghi soltanto dopo, a strage compiuta. Dopo che le forze speciali russe avevano fatto irruzione. Fu un massacro: più di 300 persone morte, fra le quali 186 bambini.

Il 7 ottobre del 2006 venne trovata uccisa nell’ascensore della sua casa moscovita, con le borse della spesa rovesciate sul pavimento: due spari, il primo al cuore, poi alla testa. “Non rieducabile” secondo la circolare della polizia di stato. Dopo più di dieci anni il suo omicidio è ancora un caso aperto.

Anna non è un personaggio teatrale del testo di Massini; non ci sono intenti agiografici, sono il suo sguardo e la sua prosa a essere protagonisti. “Non ho voluto raccontare la ‘storia di Anna’: non mi interessava. Il mio unico obiettivo era restituire dignità teatrale ad una sensazione che mi aveva colpito nel primo avvicinamento ai testi della Politkovskaja: la loro feroce immediatezza. La loro portata fotografica. Ho tentato così di costruire un album di immagini, una carrellata di esperienze in presa diretta, una galleria di zoom su precise situazioni, atmosfere, solo talvolta stati d’animo. Ne è nato un collage di quasi venti quadri. Ogni volta che il quadro inizia, il pubblico non sa niente: viene brutalmente scaraventato dalle parole in un determinato contesto che non conosce e che sta a lui ricostruire dai particolari. È come se per venti volte gli occhi si riaprissero e si richiudessero su temi e luoghi diversi, sempre da intuire. Direi che non si tratta di un testo ‘su Anna Politkovskaja’, bensì un viaggio ‘negli occhi di Anna Politkovskaja’. Visione in soggettiva degli abissi russo-ceceni.” spiega l’autore.

Curioso come le parole emozionino ormai più delle immagini; parole che descrivono immagini peraltro. Silvano Piccardi dirige con maestria e sensibilità antiretorica Ottavia Piccolo, che sa dar voce allo smarrimento, alla fragilità, alla determinazione, al coraggio e alla consapevolezza di Anna, con il rigore e l’empatia di chi s’identifica negli stessi valori di libertà.

L’arpa di Floraleda Sacchi fa da contrappunto musicale al monologo, suggerendo rumori di guerra, di ferraglia, brani strappati a un inno sovietico ormai destrutturato.