Poeti britannici in trincea

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Testi di quattordici poeti inglesi nell’inferno della Grande guerra

di Fulvio Senardi

 

Chi avesse voglia di sondare il groviglio di sensazioni e sentimenti di una gioventù ebbra di sogni di gloria e offerta al moloch della guerra (la prima mondiale), e tutto ciò nel contesto di una civiltà letteraria di grande spessore e raffinatezza (quella britannica) e nelle forme di una poesia sospesa tra i modi della tradizione e un’indistinta tensione innovativa (che troverà felice espressione nella Terra desolata, 1922, di T. S. Eliot), ha ora materia per soddisfare la curiosità. Nelle pagine di War Poets – Nelle trincee della Prima guerra mondiale (introduzione e traduzioni di Paola Tonussi, Ares editore, Milano 2022), rispondono all’appello, e trovano traduzione italiana, 14 poeti (per ca. sessanta composizioni in tutto) che ebbero la forza e la capacità di tradurre in poesia l’esperienza fatta in trincea, oppure a ridosso della prima linea, o che semplicemente vollero riflettere sull’evento catastrofico che, come mai prima nella storia dell’Uomo, aveva tinto il mondo di sanguigno (Thomas Hardy, troppo vecchio per vestire la divisa, e noto in Italia quasi esclusivamente come narratore, o Rudyard Kipling il poeta che, non compreso però in questa antologia, aveva annunciato nel ’14, chiamando alle armi, «The Hun is at the gate»  – Gli Unni sono alle porte-, dedicando poi alla guerra un mannello di amari e palinodici Epitaphs).

Alcuni già noti in Italia, e penso in particolare a Wilfred Owen (1893-1918), le cui poesie, nella traduzione di Sergio Rufini, abbiamo gustato nel 1985 (se così si può dire di liriche che descrivono l’orrore della guerra); altri, il maggior numero, ignoti al lettore italiano, ancorché non si tratti, in questi casi, di scoperte in assoluto, dal momento che un canone ha iniziato a stabilizzarsi prestissimo, già a partire dall’antologia di Edward Bolland Osborne, The Muse in Arms, del 1917 (che però, per giustificate ragioni cronologiche, lasciava fuori due giganti, Wilfred Owen, pubblicato postumo e Isaac Rosenberg, noto soltanto a partire dagli anni Trenta). Osborne schierava più di quaranta poeti-soldato, Tonussi ne trasceglie un piccolo numero (dieci dei quali caduti in battaglia), le voci più rappresentative, che traduce a fronte in una adeguata lingua di servizio, e a cui dedica uno spazio interpretativo in introduzione e, volta per volta, una scheda biografica nelle singole sezioni. Un panorama ricco e screziato e una lirica di forte impatto, ricca di risonanze e rimandi e la cui lettura, nell’ampia panoramica del libro, crea un suggestivo (e istruttivo) effetto mosaico.

Rimandando all’antologia per l’impronta specifica di ciascun autore, va sottolineato l’ampio diapason espressivo ed emozionale di questa sfortunata schiera di scrittori che tutti un po’ si assomigliano per il drammatico contesto di vita e di poesia; nonostante vi sia, ovviamente, maggiore o minore sensibilità alla voce della natura («presto primavera spargerà fiori […] lungo queste desolate linee del fronte», Richard Aldington), tema sempre vivo e presente nella tradizione poetica inglese, più o meno struggente nostalgia per le belle stagioni della pace («Se n’è andato, e tutti i nostri progetti / Adesso sono inutili. / Non cammineremo più per i Cotswold / Dove le pecore mangiano tranquille», Ivor Gurney), più o meno ironia o sarcasmo: «Dio aiuti lo Stato Maggiore / […] lavora di cervello / mentre noi stiamo appostati in trincea; / lo Stato Maggiore dirige l’universo» (Julian Grenfell, caduto in azione nel 1915); e, inizialmente almeno, consistenti concessioni al mito della morte eroica, tanto efficacemente contestato da Owen (Dulce et decorum est): «Con gratitudine orgogliosa […] / l’Inghilterra piange i suoi morti di là dal mare / […] / non invecchieranno come invece invecchieremo noi» (Laurence Binyon).

Detto questo, e accontentandoci dei pochi, minimi assaggi, mi limiterò a mettere in rilievo alcuni aspetti di carattere generale, che lasciano scorgere una panoramica non troppo diversa da quella italiana. Si ripropone infatti una tipologia ben nota a chi abbia un poco praticato la letteratura della Grande Guerra. Ad una prima ondata di entusiasmo patriottico, ben in tono con una nazione imperiale di grandi tradizioni militari, segue una fase di riflusso: il “lavoro” della guerra comincia ad apparire nella sua cruda realtà, una carneficina che lascia poco spazio agli ideali e ai sentimenti più nobili, sfarinatisi nella quotidianità di un mattatoio senza palcoscenici di gloria e dove trionfa la morte, in infinite forme atroci. Chi era partito al ritmo di marcia intonato dal Men who march away di Hardy, pubblicato dal «Times» agli inizi di settembre e posto più volte in musica all’alba della guerra (a proposito perché tradurlo: «uomini che svaniscono marciando», vedi pp. 6 e 153, e non semplicemente, per es., «uomini che partono marciando», come se la lirica contenesse un preannuncio di morte mentre invece proclama la giustezza della causa e canta l’entusiasmo di chi si arruola per servirla?), se avesse potuto superare gli scarsi due mesi in cui consisteva l’aspettativa di vita di un ufficiale inferiore in prima linea, avrebbe finito per mormorare con Siegfried Sassoon, «Oh Dio, fa che questo cessi!». E poi, di nuovo in consonanza con scrittori-soldato di altre lingue e altri fronti del grande macello, il sopravvenire di una fase di prosa narrativa e riflessiva dopo la prima spontanea reazione al carattere inaspettato dell’evento-guerra nelle sue forme novecentesche, quasi un irrefrenabile moto di sgomento e di rifiuto che si sfoga in poesia.

Nella giusta distanza dai frangenti che avevano dettato parole e versi, il sopravvissuto affida alla prosa il compito di registrare ciò che resta vivido nella memoria, ma assume un significato più generale, un Testament of Youth, come recita il titolo della famosissima autobiografia di Vera Brittain. È la guerra raccontata negli anni Trenta, da Stuparich, Salsa, Monelli, ecc., per dire di casa nostra, e altrove da Hemingway, da Remarque e da molti di questi War Poets. Il lampo improvviso della metafora lascia il posto ad un più equilibrato andamento discorsivo e con la conquista di un più riposato tono emozionale (e meglio motivata capacità critica) nascono testi che spesso affidano a personaggi portavoce un messaggio (in sostanza autobiografico) che, nell’espressione poetica, era spesso ancora solo allo stadio di grido, lamento o imprecazione, ancorché di raffinata fattura. Siegfried Sassoon ostenterà un finto cinismo di fronte alla morte («Non c’è nulla di straordinario in un caduto in una guerra europea, né in uno scarafaggio schiacciato in una cella»), nel suo Memoirs of an Infantry Officer, mai tradotto in italiano, composto alla luce della sua nuova fede pacifista e dove lo strazio dell’inferno in trincea viene evocato senza attenuazione né eufemismi; mentre Robert Graves, che pure rientrò dalla guerra fortemente segnato, riesce invece, al contrario, a elaborare un tono discorsivo e perfino ironico, un “andantino” da racconto leggero, che non fa velo però all’orrore, né alla convinzione, perfettamente veicolata, che la guerra non è che un impazzimento collettivo.

Impossibile chiudere il discorso senza una nota di rammarico per la lingua dell’introduzione di Tonussi, imprecisa e a tratti scorretta. Qualche riscontro?: «In un’atmosfera generale di nazione che implica senso dell’onore», «prosodia e accenti ripresi da atmosfere ottocentesche», «ondulano nella poesia inglese desiderio di novità, ecc.», «l’impressionante contropartita che non tarderà a pretendere il suo tributo», «attaccata da bombardamenti continui, Ypres, ecc.», «il Fronte occidentale […] è un punto fermo mortale», «un vantaggio mortale a cui è impossibile sfuggire», «sminuzza in cenere falsi valori astratti», «voler sfamare l’intento poetico di celebrare l’attimo», «un tempo fermo immobilizzato allo sparo», «un ammasso confuso di fango, crateri di bombe, ecc.». Grumi opachi che il polso fermo di un redattore potrebbe aiutare a sciogliere.

 

 

War Poets

Nelle trincee della

Prima guerra mondiale

introduzione e traduzioni

di Paola Tonussi

Ares editore, Milano 2022

  1. 320, euro 20,00