Ricordando Letizia Battaglia

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L’impegno professionale e civile della grane fotogiornalista siciliana

di Paolo Cartagine

 

«Ho passato l’infanzia tra Palermo, dove sono nata nel 1935, Napoli, Civitavecchia e Trieste: qui possedevo una bicicletta con la quale, nonostante le difficoltà del periodo, andavo libera per le strade. Nel 1945 siamo tornati a Palermo, e subito mio padre mi chiuse in casa perché alle ragazzine era proibito girare da sole. Speravo di diventare indipendente sposandomi a 16 anni. Invece non fu così. Sono nate le mie tre figlie che adoro, Cinzia, Shobha e Patrizia. Ma il matrimonio era presto finito, e a quel tempo era uno scandalo che la donna prendesse una simile iniziativa».

Così Letizia Battaglia esordiva negli incontri che la vedevano protagonista sempre aperta verso il pubblico nel condividere esperienze e sostenere con convinzione i propri ideali. Fino al 13 aprile 2022, quando a Cefalù la malattia ha avuto il sopravvento.

Aveva iniziato a collaborare come giornalista con il quotidiano palermitano L’Ora, unica donna tra scettici colleghi uomini. Nel ’70 era andata a Milano dove, lavorando in varie testate, si era resa conto che con una sola immagine si poteva narrare una storia, e che la pagina scritta ne guadagnava moltissimo. Capacità di concentrare le informazioni, accuratezza delle notizie, completezza dei dettagli sono tutte caratteristiche che contraddistingueranno il suo modo di porsi di fronte al mondo e di raccontarlo al pubblico con le immagini. Aveva sostituito la penna con la macchina fotografica.

Assieme al compagno e fotografo Franco Zecchin, quattro anni dopo era tornata Palermo quale responsabile della fotografia per L’Ora, prima donna-fotografa a lavorare per un giornale italiano. Una scelta di vita che, nonostante dubbi e amarezze, non rinnegherà mai. È la svolta professionale che la renderà famosa in tutto il mondo: «Ero stata chiamata per documentare, con il mio modo di fotografare da vicino senza invadere lo spazio, il dramma dei morti ammazzati dalla mafia. A ogni delitto ero obbligata a correre sul posto e a scattare. Mi costava molto dolore, ma ero in mezzo a una guerra civile nella mia isola e bisognava prendere una posizione.» Il 6 gennaio 1980 fu la prima fotoreporter a giungere sul luogo dell’assassinio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella.

Un archivio sterminato il suo, da cui emergono gli scatti che vedono, in particolare, Giulio Andreotti all’hotel Zagarella con il ministro Ruffini e i pregiudicati Nino Salvo e Salvo Lima, le immagini di Boris Giuliano capo della squadra mobile palermitana, dei magistrati Cesare Terranova e Rocco Chinnici, del giornalista Peppino Impastato, dei solenni funerali del generale Dalla Chiesa, di sua moglie e della scorta, tutti uccisi dalla mafia.

Ma Letizia Battaglia non è solo “la fotografa contro la mafia” perché con le sue foto bianconero ha documentato anche le molte contraddizioni di Palermo: bambini e donne, quartieri e strade, feste e lutti, tenendo sempre la città come spazio privilegiato per l’osservazione della realtà per mostrare il degrado, la miseria e la fatica di ogni giorno in cui si dibatteva la gente comune.

Il suo impegno di fotogiornalista è continuato fino al 1992, l’anno degli omicidi di Falcone e Borsellino. Da quel momento, col cuore a pezzi, Letizia Battaglia si è allontanata dal fotoreportage, rivolgendo il suo impegno civile ad attività di sensibilizzazione e divulgazione culturale e sociale, e alla (breve) attività politica al Comune di Palermo e alla Regione Sicilia.

Ha ricevuto prestigiosi attestati fra cui il Premio Eugene Smith (riconoscimento internazionale istituito per ricordare il famoso fotografo di Life), prima donna europea a riceverlo a New York nel 1985 ex aequo con l’americana Donna Ferrato, mentre nel 2007 la Società Tedesca di Fotografia le ha assegnato il The Erich Salomon Prize istituito in onore del primo fotoreporter della carta stampata.

Dagli anni 2000 Battaglia si è dedicata alla ristampa delle sue immagini storiche dei delitti di mafia, ingrandendole in modo tale che le persone ritratte siano a grandezza naturale. Le ha rifotografate includendo giovani donne per costruire nuovi messaggi di speranza e coinvolgere le nuove generazioni.

Chi era davvero Letizia Battaglia?

Si definiva uno spirito libero anticonformista e insofferente ai legami imposti, un carattere forte fatto di opposti «perché mi piace ascoltare però devo dire la mia, cerco la verità nelle situazioni più oscure, ho girato il mondo ma sono sempre tornata a Palermo e, anche se volessi fermarmi, l’altruismo mi spinge a non smettere di lottare e di pensare al riscatto della Sicilia.» Aveva stretto una solida amicizia, ricambiata, con il fotografo ceco Josef Koudelka, famoso per aver immortalato nel ’68 la fine della “Primavera di Praga”, e aveva conosciuto e fotografato, fra gli altri, Dario Fo, Franca Rame e Pasolini.

Cosa ci resta oggi di lei?

Innanzitutto una lezione di civiltà, “l’esempio” di una vita di impegno etico, morale e civile di lotta contro il male senza mai sottrarsi ai propri ideali, mettendosi in prima persona e pagando le conseguenze. Questo è stato il vero motore della sua vita, del suo lavoro, e delle sue riflessioni critiche, e autocritiche, sul valore e sul potere delle immagini e dell’informazione di massa, sul giornalismo indipendente, sul come viene orientata l’opinione pubblica, sul come il reporter sia talvolta lasciato solo.

In secondo luogo, il suo modo di fotografare. Ne parlava spesso non per vanità, ma per sottolinearne gli aspetti umani: «il momento più difficile era superare la barriera emotiva, perché non sono mai stata una fotografa, bensì una persona che fotografa. E solo dopo si affacciavano gli aspetti concreti.» Con generosità di gesti e parole ripercorreva le sue esperienze trasformandole in riflessioni utili per tutti: «il fotoreporter non può fare progetti preventivi perché prima non conosce i fatti, i luoghi e le circostanze che viene chiamato a documentare. Resta un testimone oculare che deve intuire repentinamente perché ha pochissimo tempo per affrontare lo scenario del già accaduto.» E poi altri temi quali il rispetto per vittime, parenti e testimoni, la concorrenza e la realizzazione di un “prodotto” che serva alla linea editoriale del giornale, «ma senza abbellimenti o spettacolarizzazioni a sostituire la spietata durezza e la violenza della cronaca del così com’è.» Dunque c’era in lei la preoccupazione sul come andava concepito il fotoreportage affinché l’informazione (comunque soggettiva) potesse arrivare – in maniera corretta, comprensibile ed efficace – a un pubblico vasto e di non esperti. Lo testimonia il contenuto delle foto che hanno raccontato un’epoca e con la quale il grande pubblico la conosce.

Non da ultimo, l’ironia con cui sottolineava che, già nel nome e nel cognome, era scritta la sintesi del suo approccio alla vita e del suo rapporto con gli esseri umani, «perché “Letizia” significa gioia, felicità, allegria, mentre “Battaglia” è combattimento, conflitto, lotta.»

 

 

La bambina col pallone

Palermo, quartiere La Cala, 1980