Jeffries: l’anima oltre l’immagine

| | |

di Michele De Luca

 

Quello di Lee Jeffries (Bolton, UK, 1971)  – scriveva Jack Conran (Telemetro Forum, 2011) – «non è sicuramente fotogiornalismo. Né si può intendere come ritratto. È iconografia religiosa e spirituale. […] Jeffries ha dato a questa gente qualcosa di più della dignità personale. Ha dato loro una luce nei loro occhi che raffigura la trascendenza, un barlume di luce alle porte dell’Eden, per così dire […] Credo che Jeffries abbia usato la sua arte per onorare queste persone, non per pietà. Egli onora quelle persone dando alle loro sembianze un significato più grande».

Jeffries vive a Manchester, nel Regno Unito; la scelta di fotografare quasi ossessivamente i diseredati delle grandi città d’Europa e d’America, come egli stesso ha raccontato, nasce (come del resto per le strade intraprese dalla maggior parte dei fotografi) da un fatto casuale, e cioè da un incontro con una giovane ragazza senzatetto nelle strade di Londra di cui aveva “rubato” l’immagine con la sua fotocamera, mentre era rannicchiata in un sacco a pelo. Lee sapeva che la ragazza lo aveva notato e la sua prima reazione fu di andarsene, ma qualcosa lo indusse a rimanere e andare a parlare con la ragazza. In quel momento la sua percezione riguardo ai senzatetto cambia completamente: «Ho imparato a conoscere ciascuno dei soggetti prima di chiedere loro il permesso di fare loro il ritratto».

Questi volti sono come delle schegge di luce che scaturiscono dalle tenebre, che ci guardano, ci coinvolgono, ci richiamano quasi ferocemente alle nostre responsabilità; sono un pugno nello stomaco della società che li emargina, li ignora, come oggetti di arredo urbano abbandonati, fatiscenti e ormai inutili, che generano fastidio e, peggio ancora, abitudine e indifferenza. Mentre, negli scatti di Jeffries sembrano prepotentemente reclamare la loro esistenza, con il carico di storie personali (chissà quanto umanamente ricche e preziose) che rimarranno per sempre confinate nel silenzio profondo della loro solitudine . Le sue foto (circa cinquanta) alquanto angosciose, generano però un sentimento di compassione e solidarietà nella mostra “Lee Jeffriers. Portraits. L’anima oltre l’immagine” allestita nel Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano. Come ci dice Barbara Silbe, che con Nadia Righi ha curato l’esposizione milanese, «per realizzare ritratti fotografici potenti come questi, ancor prima della competenza tecnica o della visione artistica occorrono due requisiti fondamentali: la vicinanza e l’empatia con i soggetti. Le inquadrature di Lee Jeffries spiegano da sole quale sia l’approccio con il quale interagisce coi senzatetto o con le persone in genere: nulla di superficiale, di rubato in velocità restando a distanza, ma un obiettivo corto e un approccio volto a costruire con ciascuno di loro un rapporto che vada ben oltre l’istante decisivo dell’immagine finale che noi vediamo appesa».

Le sue foto sono espressione di una forte urgenza etica e animate da passione civile, portatrici di un messaggio autentico di partecipazione e “denuncia”; che non nascondono tuttavia un retroterra culturale e di ricerca anche estetica, come si evince  da uno “stile” originale, attento al trattamento della luce e dell’ombra che Giovanni Cozzi, curatore di una mostra al Museo di Roma in Trastevere giusto dieci anni  fa, definì “caravaggesco”), all’inquadratura frontale, su sfondi scuri, che fornisce estremo risalto alla sua “scrittura” dei volti, trattati come valori assoluti, al di fuori del tempo e di ogni contesto storico.