A Illegio la luce dei maestri

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Protagonista la figura di quanti hanno inteso indicare agli altri un percorso di vita

di Graziella Atzori

 

Il 12 maggio scorso è stata inaugurata la sedicesima mostra tematica a Illegio, delizioso minuscolo borgo medievale incastonato tra le dolomiti carniche (conta unicamente 400 anime). Qui è ancora possibile unificare natura e cultura, in un mondo, il nostro, segnato dalla frattura tra le due componenti essenziali della psiche umana. Anche in considerazione di ciò Illegio merita una visita, per assaporare e vivere un giorno di ritrovata armonia.

La mostra, dedicata ai Maestri, promossa dall’associazione Comitato di san Floriano, è curata da don Alessio Geretti e durerà fino al 6 ottobre, con orario 10 – 19 da martedì a sabato, domenica 9.00 – 20 (ultimo ingresso ore 19.30). Lunedì di agosto, settembre, ottobre aperto con orario 10.00 – 19.00.

Maestri. Sembra che la società postmoderna tanto parcellizzata e priva di punti di riferimento possa farne a meno, salvo poi sentirsi tragicamente impoverita e sola. Come riscoprire la voce interiore del nostro autentico sé, guida e sostegno, se manca un dito che indichi una direzione o una luce per trovare la strada individuale da percorrere? Tali considerazioni hanno spinto gli organizzatori a radunare quaranta opere provenienti da tutta Europa, 8 dalla Francia, 19 dall’Italia, 1 dalla Spagna, 1 dalla Svizzera, 9 dall’UK e 2 dal Vaticano. Sono opere che coprono un lasso di tempo quasi millenario, dal dodicesimo secolo al 1968, rappresentativi della sapienza intesa come conoscenza dell’essere e del saper fare. La passione del bello e la tensione verso la trascendenza e il divino costituiscono i motivi centrali del discorso visivo, causa e insieme finalità delle opere.

Il percorso si articola in quattro tappe: Maestri dalle prime scuole all’università; le botteghe e i mestieri; i grandi pensatori ed infine la insopprimibile presenza d’amore del maestro dei maestri, Gesù Cristo.

Si nota purtroppo la scarsità di Maestre, la presenza del magistero femminile è decisamente minoritaria, sebbene l’immagine prescelta nella locandina mostri una dolcissima maestra d’asilo circondata da bimbe adoranti. Si tratta di un dipinto a olio di H. J. J. Geoffroy, La scuola materna, 1898. La seconda presenza femminile è una nonna intenta ad insegnare a sferruzzare alla nipotina; il quadro di Eugenio Zampighi, è intitolato La sua prima lezione (data sconosciuta).

La terza presenza femminile e quella di Ipazia, filosofa, astronoma e matematica martire del pensiero, trucidata nel 415 d.C. da fanatici cristiani. La vediamo a destra nel capolavoro di Raffaello La scuola di Atene, ripreso da Giuseppe Bezzuoli e dipinto a olio su tela nel 1819.

In mostra non mancano i grandi sacrificatisi al sapere, come Socrate e Seneca. Del primo troviamo due oli con lo stesso titolo La morte di Socrate di Jacques Philip Joseph De Saint Quentin(1762) e il secondo di Jean Baptiste Alizard (1762). La morte di Seneca è di Luca Giordano (olio su tela, 1684).

Nell’olio Diogene di Jules Bastien Lepage (1877) vediamo il cinico possente e nudo con la sua gamella, unico suo avere, poi abbandonato dopo aver osservato un bambino bere alla fontanella con le mani a coppa.

Omero canta rivolto a una coppia di adolescenti anch’essi nudi, una ragazza a sinistra e un giovane a destra in basso in Omero che canta i suoi versi di Paul Jourdy (olio su tela, 1834). Qui la nudità è simbolo di inesperienza e ignoranza.

La propensione a ricopiare e/o rielaborare opere di grande fama raggiunge l’apice in un quadro di Picasso in versione ridotta dal titolo arcinoto Las Meninas, (1957), ispirato dall’immenso Velasquez. Si tratta di una delle 44 versioni sul tema create dall’artista spagnolo. In questa l’infanta, vestita di bianco da Velasquez, viene trasformata da Picasso in un centro di luce dorata, acquisendo un significato di maggiore maturità e regalità piuttosto che di infantile innocenza; il cane in primo piano è il bassotto del pittore, presenza vitale, abituale e affettuosa, senza elementi paurosi; lo specchio sullo sfondo è  privo di figure, quasi che Pablo volesse suggerire di non credere nel mondo riflesso e nelle sue illusioni ingannevoli.

La scuola materna così serena di cui ho detto trova un contrappunto drammatico in La scuola di villaggio (olio su tela, 1888) del pittore napoletano Giuseppe Costantini. Nella scena l’artista denuncia una realtà ben diversa, miserabile e dolorosa: una cucina dal terreno in terra battuta è stata trasformata alla meglio in aula; ben due ragazzi sono stati puniti con l’applicazione di un boccaglio sulla bocca simile alla bardatura del cavallo, per farli tacere. I bambini appaiono laceri e scalzi. L’arte non mente, testimonia quanto l’insegnamento del passato sia stato esercitato in modo autoritario e crudele per chi aveva in sorte il lavoro duro e sfruttamento.

Dal Museo Carmi di Carrara proviene una ottima copia in gesso del Mosè di Michelangelo, eseguita di recente nel 2019, carica di suggestione per la sua forza. Un maestro dominatore? Michelangelo impiegò quarant’anni per scolpire uno dei massimi capolavori di ogni tempo, sempre distolto da altri lavori e vicissitudini. La scultura presenta il legislatore divino in posizione seduta, le tavole della legge quasi nascoste, come se il leader condottiero dovesse sottrarle alla vista della sua gente, già in adorazione del vitello d’oro. Dal racconto biblico conosciamo l’ira funesta che ne segui. Perché Mosè è stato scolpito con le corna sulla sommità del capo? Una spiegazione, fornita dalle guide a Illegio, sta nella confusione tra le parole ebraiche Karan, raggi, e keren corna, in cui incorse il traduttore della Vulgata, san Girolamo. E corna furono. Ma non possiamo dimenticare l’impressione profonda del Mosè michelangiolesco su Sigmund Freud, ebreo che scrisse il saggio Mosè e il moniteismo nel quale il padre della psicanalisi stabilisce che Mosè fu un egiziano. E nel pantheon egizio il Dio Amon è un dio cornuto con testa di ariete. Anche Iside dea della sapienza porta sul capo le corna della mezza luna. Le corna allora sarebbero una raffigurazione di divinità teriomorfe, un residuo religioso antichissimo che riunifica l’istinto alle funzioni mentali superiori, componendo un unicum. (laTavola Smeraldina scritta sia in greco che in geroglifici parla infatti di una “Cosa unica” meravigliosa). Michelangelo avrebbe conservato la verità esoterica, ripresa dagli ermetici neoplatonici presso i quali l’artista si era formato alla corte di Lorenzo il Magnifico. Tesi sostenuta da James Hillman, analista junghiano.

Tra le opere in mostra che attraggono maggiormente vi è La buona ventura (olio su tela, 1596-1597?, collezione privata) la cui attribuzione a Caravaggio è ancora incerta. Sono necessarie ulteriori analisi radiografiche per risolvere l’enigma. Il quadro raffigura una zingara ammaliatrice intenta a leggere la mano ad uno sprovveduto giovin signore, a cui sta proditoriamente sfilando un anello. Certo tanto poteva accadere, ma dal gesto truffaldino non discende necessariamente la conclusione che le mantiche siano un imbroglio. Tutta l’antichità ne è satura.

Bellissime e numerose le immagini di Cristo maestro. Ne segnalo una fra tutte: L’animatore di Vittorio Bonatti (olio su tela, 1920), dipinta dopo la Prima guerra mondiale, ecatombe di milioni di morti. Dopo la morte della ragione e l’abisso dell’odio fra i popoli, voluto e aizzato da pochi detentori del potere, dopo la perdita di umanità, Cristo in primo piano nel quadro torna a condurre le moltitudini verso la saggezza e la carità. Da una velatura in un sottofondo delicatissimo e misterioso quasi emergente da altre dimensioni, si intravvede la Croce che redime. Carità, dal latino “caro” carne. L’altro, insegna il Maestro, è caro, prossimo, intimo. Seguirlo nel dettato dell’amore incarnato è la nostra libera decisione. Senza questo legame carnale-spirituale nulla conta e nulla ha senso. Ricordiamolo oggi più che mai, oggi che l’uomo ha sempre ancora fame di pane, di acqua e di giustizia. Oggi che stiamo distruggendo la terra.