Addio a Klavdij Palčič

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Il Ponte rosso gli ha dedicato, se non sbaglio, almeno tre volte l’immagine di copertina, e pare strano questo addio deprivato del conforto della visione di una delle sue opere. Ma quando ci è pervenuta, con un messaggino di Tatjana Rojc, la notizia della scomparsa di Klavdij Palčič il giornale era praticamente pronto, e subito la memoria è andata a rievocare il penultimo nostro incontro, nella sua casa abbarbicata sotto la Napoleonica, per un’intervista poi pubblicata sul n. 46 del giugno 2019.

Stava già molto male, sdraiato in poltrona rispondeva alle mie domande con un filo di voce, ma con l’accogliente calore e con l’appassionato entusiasmo che, nonostante lo sforzo cui si sottoponeva per parlare, non gli riusciva di non far trasparire. Mi venne ad aprire, in quel pomeriggio, la signora Annamaria, Anni (o Anny) per gli amici, anche lei accogliente e ciarliera. Una vita vicino a lui: «Siamo assieme da quando avevamo quindici anni io, diciotto lui… ». Mi fece strada, scusandosi per un inesistente disordine, in un labirintico percorso, tra dipinti alle pareti e tele accatastate nello studio, sculture in bronzo, come un museo, pieno di vivacità e di straordinaria travolgente bellezza. «Quando abbiamo acquistata la casa era un rudere, ci sono voluti sette anni per renderla abitabile. Abbiamo poi acquistato un altro rudere, adiacente al primo, e siamo andati avanti nell’opera di ricostruzione. Qui ha fatto tutto Claudio, dal progetto al portone, al caminetto, al grande tavolo di legno intarsiato del piano di sopra… ». Un po’ l’ascoltavo, un po’ no, distratto ad ogni passo da quanto mi vedevo attorno, opere polimateriche del periodo informale dei lontani anni Sessanta, poi le tracce di un’inesausta ricerca creativa, con l’uso di materiali diversi: legno, gomma, metallo, plexiglass colorato, per arrivare alle grandi tele più recenti, e poi grafiche nelle quali riconoscevo gli stilemi che più mi sono famigliari, i dipinti con cui il suo lavoro ha scavalcato la soglia del secolo per avventurarsi nel nuovo millennio.

Poi, una lunga affascinante conversazione con lui, la rievocazione di un’infanzia ormai remota, gli anni della guerra, il padre contadino ma anche partigiano, gli anni della sua formazione, l’incontro con August Černigoj, suo insegnante al liceo, poi la maturità artistica a Venezia, l’insegnamento, una lunghissima creatività esercitata nella scultura, nel disegno, nella grafica, nella scenografia, nell’illustrazione e soprattutto, naturalmente, nella pittura.

Mi raccontava di non essere stato mai un solitario, di aver ricercato confronti con altri artisti, fin dagli anni Sessanta, quando fece parte del gruppo “Raccordosei – Arte viva”, assieme a Nino Perizi, Enzo Cogno, Miela Reina, Bruno Chersicla e Lilian Caraian. Un gruppo di avanguardia, di cui Palčič era l’unico sloveno.

La sua pittura, fin dagli esordi basata sulla sovrapposizione di elementi figurativi con altri di astrazione, come mi confermò egli stesso: «Puoi osservare in molti dei miei quadri la compresenza di una parte realistica, di un particolare anatomico assai spesso, e di un’altra componente non ancorata alla realtà immediatamente percepibile con i sensi, le aree normalmente invase dal colore, dal movimento del pennello sulla tela e dallo stesso spessore materico del colore, che rimandano a un altro pensiero, a una diversa e più complessa emozione».

Anche se non tutto ciò che ci siamo detti è stato possibile condensare nelle pagine dell’intervista che qualche tempo dopo ho pubblicato sul n. 46 del Ponte rosso, vale comunque la pena di rileggerla (https://www.ilponterosso.eu/2019/07/03/il-mondo-di-palcic-tra-materia-e-fantasia/), per sfiorare almeno la vita, l’opera e il pensiero di un grande generoso artefice, per illudersi di averlo ancora con noi ed avvertire infine che la morte, in fondo, non finisce nulla.