Aldo Oberdorfer critico di Saba

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L’Indipendente del 23 gennaio 1913 riporta in prima pagina una recensione, I versi di Umberto Saba, del tutto sconosciuta ai cultori della “fortuna” di Saba

Oberdorfer, un intellettuale e dirigente socialista quasi totalmente dimenticato

«Tutta la poesia di Saba s’è evoluta verso forme più intime e più alte. E i suoi versi d’oggi ci assicurano ch’egli è destinato a salire anche più in alto»

di Fulvio Senardi

 

Come nella vita, anche in campo culturale avviene a volte che incontri fortuiti aprano inaspettati orizzonti di riflessione, o forniscano materia capace di accendere nuove curiosità. Nessuna rivoluzione: qualche utile messa a punto, che poco cambia, lo concedo, rispetto alle cose ultime, ma che pure conta in quello spazio infinito di utopia, dove si intrecciano l’individuale e il sociale, il particolare e l’universale, lo spirito e la materia, l’etica e la psicologia, da sempre il luogo eletto dell’arte. Insieme refugium cordis e balenante groviglio di feconde prospettive sull’Uomo. Detto questo, a giustificazione di una priorità di interessi non forse scontata, in un momento storico in cui la “galera capitalista” ha di nuovo alzato i suoi muri, con l’aggravante in Italia di schiere di secondini tanto incompetenti quanto gaglioffi, ci si può volgere senza troppi sensi di colpa a quello splendido e utilissimo “superfluo” che è la letteratura, e in particolare al poeta che, espressione della “grande Trieste” del crepuscolo asburgico, viene sempre più chiaramente riconosciuto come una delle massime voci del Novecento, Umberto Saba.

Del cui secondo libro di poesie, Coi miei occhi (1912), L’Indipendente del 23 gennaio 1913 riporta in prima pagina una recensione, I versi di Umberto Saba, del tutto sconosciuta ai cultori della “fortuna” di Saba, e interessante soprattutto per un aspetto: perché a firma – qui la sorpresa – di Aldo Oberdorfer. Recensione ovviamente non citata nell’apparato curato da Arrigo Stara per l’edizione dei «Meridiani» delle opere di Saba e che, come vedremo, ha il merito di rivelare l’esistenza di una relazione amicale fra uno dei massimi intellettuali socialisti della Trieste del primo Dopoguerra e il poeta la cui pubblicazione d’esordio, sul Lavoratore del maggio 1905, è proprio una lirica di impronta socialisteggiante, Il borgo. Da qui una serie di possibili illazioni relative al rapporto tra i due triestini: ricordando che «nove o dieci anni orsono, quando tutti i giovani in Italia, erano dannunziani, il Saba mi lesse una sua ode, Il fanciullo» che «mi piacque perché mi ricordava il divino ‘fanciullo’ delle Laudi», Oberdorfer fa intendere che all’altezza del 1905, la data di pubblicazione appunto del Borgo, vi fossero reciproco interesse e momenti di dialogo. Se sull’orizzonte di un incontro toscano (Oberdorfer aveva radici a Firenze, essendovi stato studente all’Istituto di Studi Superiori, e Saba è a Firenze dal 1905 alla primavera del 1907) o sull’onda di una condivisa passione politica (cui Oberdorfer rimarrà fedele, anche nei contenuti) non è lecito dire; tuttavia, pur senza poter spingersi oltre, è un’indicazione certamente assai utile. Tanto più che Oberdorfer ha il merito di aver tradotto in italiano, nel 1910, l’Ecce homo di Nietzsche (Bocca editore, Torino), un libro che potrebbe aver indicato a Saba (difficile che gli fosse sfuggito, considerando la familiarità o amicizia con il traduttore) una via d’uscita dall’iper-semplificazione dannunziana del messaggio del filosofo tedesco, da realizzarsi in direzione psicologica (si rammenti l’ultima Scorciatoia con la sua preziosa indicazione “genealogica”: «Nietzsche – Freud – S.)»: «che dai miei scritti parli uno psicologo che non ha uguali, è forse la prima convinzione cui giunge un buon lettore, un lettore che, come io mi merito, mi legga come i buoni vecchi filologi si leggevano il loro Orazio» (Nietzsche, Ecce Homo, Perché scrivo così buoni libri, paragrafo V). Cosa che non esclude ovviamente anche altre frequentazioni e differenti percorsi di appropriazione (su suggestione, in primo luogo, di quella Vita di Federico Nietzsche di Daniel Halévy, in italiano da Bocca nel 1912, per la quale Saba manifesta uno specifico interesse).

Prima di vedere la recensione un po’ da vicino, è forse il caso di dedicare però qualche parola a Oberdorfer, un intellettuale e dirigente socialista quasi totalmente dimenticato: lo ignora il Dizionario biografico degli italiani e Wikipedia, pur così generosa con la fragile fama di certi contemporanei (decantata, sfiorando il ridicolo, per righe e righe certo espressamente commissionate), gli dedica un misero accenno in quanto traduttore. Ben diversamente attento all’uomo e all’opera invece il Dizionario degli autori di Trieste, dell’Isontino, dell’Istria e della Dalmazia di Walter Chiereghin e Claudio H. Martelli, e a ragione. Oberdorfer ha infatti inciso, a suo tempo, nella vita politico-culturale della città, oltre a offrire agli italiani, nel ruolo di traduttore e musicologo, importanti raccordi con l’Europa: fedele all’impegno pedagogico che lo ha contraddistinto come politico (e come segretario, nei primi anni del Novecento, dell’Università popolare di Trieste), ha firmato volumi di carattere divulgativo su Wagner e Beethoven (oltre che su Michelangelo, Leonardo e Verdi, di cui scrive un’“autobiografia” a partire dalle lettere, firmandosi Carlo Graziani negli anni delle leggi razziali), ha tradotto Zweig e Döblin e, tra i pensatori, Kant, Windelband e Rohde. Da socialista ha inoltre partecipato con passione al dibattito politico della Trieste del dopoguerra documentandolo non solo con il più noto Il socialismo del dopoguerra a Trieste, Vallecchi, 1922 (posseduto in Italia da una trentina di biblioteche pubbliche) ma, per tralasciare gli interventi più occasionali sul Lavoratore, con un saggio I problemi della Venezia Giulia (sull’Unità di Gaetano Salvemini, 14 giugno 1919) che rappresenta il contributo più ricco, articolato e intelligente sulle criticità della Venezia Giulia da poco annessa che sia stato prodotto in quegli anni cruciali di ansia e di speranze. Se la viuzza in contrada Roiano che ha preso il suo nome testimonia assai poco della statura di Oberdorfer, meglio fa Giani Stuparich, che in più luoghi di Trieste nei miei ricordi lo menziona con stima affettuosa, fedele a una valutazione ampiamente positiva già espressa nel 1919 (Italiani e slavi – I primi assaggi elettorali, 25. IX): «se una persona come Aldo Oberdorfer, conosciuto come interventista, quale collaboratore dell’Unità di Salvemini e in genere quale persona di coltura superiore e di coltura specialmente storica, può occupare uno dei posti più influenti nel Partito socialista triestino, è segno che in seno al partito qualche cosa è profondamente mutata o sta per mutarsi». Per riprendere poi il discorso, sul filo del ricordo, a trent’anni di distanza: «alla redazione del ‘Lavoratore’», racconta Stuparich – di ritorno, spaesato, a Trieste dopo la lunghissima prigionia – «andavo soprattutto per lui. […] Uomo di lettere, sensibilissimo all’arte […] Aldo Oberdorfer veniva al socialismo da quella visione della vita che supera tutte le amarezze della realtà per una profonda, ostinata innocentissima fede nel miglioramento umano». Stuparich menzionerà ancora, nella sua autobiografia, l’Oberdorfer degli anni bui, narrando di un incontro casuale con l’uomo perseguitato in quanto ebreo e socialista, costretto a una vita grama sotto i cieli plumbei della dittatura. Difficoltà “ambientali” nel Paese dell’«uno buggera l’altro, Santità» (uno dei versi più veri, secondo Saba, della poesia italiana) di cui l’intellettuale socialista aveva toccato da subito la durezza, quando da interventista, ma al modo di Bissolati, fu oggetto di un’inchiesta di polizia e non venne accolto nell’esercito combattente, per sospetti di attività spionistica pro-austriaca, suscitati contro di lui dagli ambienti del fuoriuscitismo nazional-liberale; ebbe allora a sperimentare quella condizione di emarginato che più tardi gli verrà imposta dal fascismo anti-semita, fino all’internamento a Lanciano, da cui fu liberato nel 1941 solo per morire (per saperne di più, si veda Gianni Orecchioni, I sassi e le ombre: storie di internamento e di confino nell’Italia fascista). Per chi ami il lieto fine, se di tale si può parlare in questo cupo contesto senza parere amaramente ironici, aggiungiamo che a Chieti, nella scuola che lo ha visto in cattedra, e da cui fu espulso nel 1938, è stata posta nel 2016 una targa, anzi un “sanpietrino” (nel quadro di un progetto di arte per la memoria ideato da Gunter Demning) per ricordare l’insegnante e il perseguitato, di cui evidentemente quella città e quell’istituzione vanno fieri.

Quanto alla recensione, ciò che soprattutto colpisce è una sorta di irrisolta ambivalenza sul piano del giudizio, che probabilmente deriva dalla propensione per le fanfare spiegate del Grande Stile dei Carducci e dei D’Annunzio coltivata da un recensore educato alla disciplina del classici (si rammenti il passo già citato: «il Saba mi lesse una sua ode, Il fanciullo» che «mi piacque perché mi ricordava il divino ‘fanciullo’ delle Laudi»). Una sensibilità che giustifica la presa di distanze dagli «endecasillabi raramente armoniosi ma spesso ampiamente ritmati […] la forma quasi strofica dei suoi nuovi versi, forma discutibile ma non priva di pregi», ancorché caratterizzata da «spezzature» e « contorsioni», da «andamenti troppo prosastici o troppo decadenti che ricordano, dio mi perdoni, i versi Aldo Palazzeschi – che del resto non è un cattivo poeta». Novità e discontinuità di forma in cui consistono i «grandi difetti» (bilanciati però da «altissime qualità») di Coi miei occhi, nella prospettiva, dobbiamo ritenere, di chi non sa pensare la poesia se non in termini di canto spiegato e «circulata melodia». E sono difetti già presenti nella raccolta del 1911, aggiunge Oberdorfer, rivelandosi lettore attento e non occasionale della poesia del concittadino. Oltre a ciò, a smentire la promessa di oggettività del titolo («questa volta egli ha veduto col suo ‘cuore’»), un’insistenza sul tema del male d’amore che «fa fluire sul labbro» di Saba «le vecchie frasi onde messer Francesco già cercò di sfogare i suoi crucci»: è la «passione tragica e flagrante» per Lina dal rosso scialle, come scriverà molto anni dopo Debenedetti, che rilancia espressioni usurate, ma «rinnovate dal dolore nuovo, risentite, rivissute», ritocca subito Oberdorfer, tanto incline alla citazione («La fatica ch’io duro è vana cosa / che più ritorni quanto più ti scaccio», ecc.) da suggerire una partecipazione più piena di quanto il giudizio non faccia credere. Se nella prima raccolta il poeta «poneva ogni sua cura nell’essere onestamente preciso» e «la commozione dell’artista si rivelava continua ma troppo rigidamente costretta entro i limiti della verità, oggi sentiamo dei movimenti nuovi che, nati dal dolore, son divenuti e, più, diverranno, poesia». Ma a patto di attendere di «sentir maturato in sé il suo nuovo mondo, di veder più chiaro nel suo animo». Dove l’approvazione appare meno condizionata è a riguardo delle poesie di ambientazione triestina – l’elegia dei luoghi, in cui tanti lettori hanno individuato la quintessenza dell’arte di Saba: Trieste, Città vecchia, Tre vie, Via della pietà, ecc. – nelle quali, spiega Oberdorfer, da un lato la «fantasia» del poeta «appare più di prima costretta da uno spirito che, sovra tutte, sente la necessità della fedele esattezza nella rappresentazione», e quindi «piccole acqueforti di poche e salde linee tracciate con sicurezza», mentre dall’altro fa spicco la tendenza a «guarda[re] a Trieste come a un innamorato alla sua donna lontana, con quell’amore nostalgico per la città giovane e bella che piange in fondo al cuore di tutti noi, esuli volontari o involontari». A questo punto, come svela l’accenno all’esultanza, è più che evidente che l’incertezza della valutazione (realismo minuzioso o deformazione emozionale del dato oggettivo?) ha a che fare con la personalità del critico almeno quanto con l’opera in esame, di cui Oberdorfer – e in virtù delle sue stesse oscillazioni di giudizio – sa tuttavia mettere adeguatamente in rilievo le componenti in contrasto, dentro un processo di maturazione che conserva tracce di realismo minuto, sul modello di certe voci del secondo Ottocento (il non insignificante Betteloni, per esempio), proprio mentre il dettato poetico è sottoposto a un intenso processo di interiorizzazione, in sintonia con i fermenti più vitali del primo Novecento.

Una fase cruciale di una dialettica di lungo periodo dove si smussano e si stemperano, in uno sforzo permanente di chiarificazione psicologica e formale, i tratti più inconciliabili di uno stile composito e stratificato, avviandolo ai traguardi di una originale e armoniosa personalizzazione. È qui del resto che si giocano i destini dell’arte sabiana, come certifica Oberdorfer in chiusura, dove regala ai lettori, cosa inconsueta sulla prima pagina di un giornale di partito, una lunga citazione del Fanciullo appassionato (la “forma” definitiva di quell’ode che aveva così colpito il recensore e di cui, come per tante liriche del primissimo Saba, quasi non resta traccia?): «tutta la poesia di Saba s’è evoluta verso forme più intime e più alte. E i suoi versi d’oggi ci assicurano ch’egli è destinato a salire anche più in alto».

Profezia assolutamente rispettata.