Le parole per dirlo

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Scrivo queste mie noterelle nel giorno in cui la (pardon: il) presidente del Consiglio si presenta alla Camera dei deputati per esporre il programma del suo governo; sono quindi sotto l’effetto di quanto è accaduto nel mese che ci separa dalle elezioni, nello scenario politico rivoluzionato dalla vittoria della destra che si accinge a varare il suo esecutivo. Quattro settimane dove di fatti concreti, dal punto di vista legislativo non possono esservi, ma dove molto si è parlato, straparlato, discusso, ragionato e scritto per preparare l’evento che prende concretezza oggi nell’aula di Montecitorio, dove si è esercitata per intero la retorica del discorso che inaugurerà una nuova stagione politica.

Vediamone alcune, di queste parole che si sono affacciate in questi giorni nel lessico politico, giornalistico ed istituzionale, ad iniziare proprio dall’articolo che la nuova inquilina di Palazzo Chigi rivendica per il suo ruolo, per il quale intende che sia mantenuto il genere maschile, forse per avvalorare l’immagine di donna non sprovvista di caratteristiche di virilità che ha inteso darsi nella sua lunga marcia di avvicinamento al potere. Si tratta di una sgrammaticatura, ma più che tanto male non può fare.

Anche la nuova intestazione di alcuni ministeri sarà operazione sostanzialmente indolore, salvo che per qualche decina di migliaia di euro necessari per mandare al macero tonnellate di carte intestate, e per la rottamazione di centinaia di targhe, timbri, pagine web. In cambio, il Ministero per le Politiche Agricole potrà diventare il Dicastero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, assicurandoci mozzarelle autarchiche, mentre è in via di creazione il Ministero dell’Istruzione e del Merito – si auspica il merito nelle carriere dei docenti universitari – e probabilmente i prossimi giorni ci porteranno ulteriori variazioni. Sono “riforme” che costano pochissimo, delle quali è evidente da un lato la diffusione di un’intenzione programmatica e dall’altro un palese intento propagandistico, funzionale a dare l’impressione che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», come ci ha spiegato nel suo Gattopardo Tomasi di Lampedusa. Un po’ come la cosiddetta “pace fiscale” che è sempre in realtà il vecchio condono, ormai impresentabile come tale agli occhi di coloro che le tasse sono costretti a pagarle o che comunque le pagano. Armi di distrazione di massa, dunque, che hanno per chi le maneggia il vantaggio di sviare l’attenzione dalla realtà oggettivamente drammatica in cui versa il Paese (la Nazione, come amano dire loro). E poi, si capisce, necessari per mimetizzare la mancata realizzazione di buona parte degli impegni assunti con gli elettori. I quali non vedranno certo aumentare a mille euro le pensioni minime, ma che, se andrà loro bene, possono almeno sperare nella riduzione delle bollette che stanno togliendo il sonno a famiglie ed imprese. In continuità, tra l’altro, con quanto ha fatto il governo precedente, da parte di quello diretto dalla (pardon: dal) presidente del Consiglio che stamattina, mentre scrivo questo articolo, si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia, con toni che neanche tanto vagamente ricordano quelli di un comizio elettorale.

Assistiamo allora fin da stamattina a un altro paradosso della situazione, grazie al quale la famosa “agenda Draghi” è ora affidata alle amorevoli cure di quella che di quel governo è stata la più tenace – a dire il vero, anzi, l’unica – oppositrice e che si trova oggi ad esserne la più conseguente e scrupolosa continuatrice.

Così vanno dunque, come sempre, le cose in questo benedetto assurdo bel Paese (pardon: Nazione).

All’opposizione frammentata e frastornata che si accinge a non votare la fiducia al nuovo gabinetto consigliamo di rileggersi il romanzo di Tomasi di Lampedusa. O magari, se proprio non ce la fanno, di rivedere almeno il film di Luchino Visconti, interpretato tra l’altro da una splendida Claudia Cardinale.