Mirella Schott Sbisà

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Una donna e un’artista nel Novecento giuliano

Un libro che ripercorre la sua biografia curato dalla figlia secondogenita, Paola

L’arte e la cultura giuliana le devono molto.

di Walter Chiereghin

 

La storia di una donna, prima ancora di quella di un’artista, che s’interseca con la Storia (maiuscola), seguendone giocoforza i meandri sul territorio in cui vive e lavora, al centro di un reticolo di amicizie e conoscenze che la collocano in un osservatorio privilegiato sulla cultura del suo tempo, bene introdotta nella vita artistica a livello nazionale. Inserita anche in una rete di affetti familiari, cui il raggiungimento di una ragguardevole età la espose a confrontarsi con il dolore di perdite e separazioni come pure con l’entusiasmo degli incontri e delle nascite. Una vita non facile, tuttavia, quella di Mirella Shott Sbisà (Trieste, 1921 – ivi, 2015), raccontata ora in parte in prima persona, in parte in terza, per gli interventi di quanti la conobbero da vicino, in un libro che ripercorre la sua biografia curato dalla figlia secondogenita, Paola, volume che rientra fra le iniziative promosse dal Soroptimist Club di Trieste nel 65° anniversario della fondazione, che vide la Schott fra le socie fondatrici.

Una storia tipicamente triestina, anche se assai poco provinciale, che comincia ben prima che lei venisse al mondo, quando la famiglia paterna, di religione ebraica e proveniente dalla Romania, consolidò a Trieste la propria condizione di borghese agiatezza, in gran parte ascrivibile a una fiorente iniziativa industriale nel settore dei filati di lana, con varie sedi nell’Impero austroungarico, tra le quali una a Vienna.

Il nonno di Mirella, Massimiliano, era morto improvvisamente nel 1899, a sessantacinque anni, lasciando alla vedova Ulrica Mendl, imparentata con l’importante famiglia dei Salem, l’oneroso incarico di badare ai quattro figli , dei quali l’ultimogenito, Edoardo, che sarebbe diventato il padre di Mirella, aveva allora appena nove anni.

Edoardo meriterebbe una biografia a sé, tanto interessante e originale è stato il suo percorso: compì gli studi liceali a Trieste (fu anche compagno di scuola e amico di Scipio Slataper), dove tra l’altro nel 1910 iniziò a prendere lezioni di inglese da Joyce che pare lo considerasse il suo allievo migliore. S’iscrisse quindi Facoltà di Chimica al Politecnico di Lipsia, senza peraltro conseguire la laurea. Irredentista, fu tuttavia inviso alla componente più aggressiva e imperialista del partito liberal-nazionale triestino. Allo scoppio del Primo conflitto mondiale, nel ’14, riparò in Italia dove si rese protagonista di una serie di intrighi miranti a favorire l’entrata in guerra dell’Italia, finendo poi per arruolarsi volontario nel 1915 nell’esercito italiano. Per ragioni precauzionali, considerata la possibilità di essere giustiziato come traditore in caso di cattura da parte degli austriaci, assunse il cognome di Desico, che in seguito utilizzò come pseudonimo per la pubblicazione dei suoi libri. Ammalatosi dopo alcuni mesi dall’arruolamento, fu destinato a servizi di retrovia, diventando corrispondente dal fronte per Il Popolo d’Italia e per Il Lavoro. Dopo la vittoria, partecipò alle trattative di pace a Parigi. Rientrato a Trieste, diresse la fabbrica di filati di lana della famiglia, ubicata nel grande edificio liberty di Via Ruggero Manna (che a sua volta sarebbe meritevole di un approfondito articolo).

Nei primi anni successivi al conflitto, Edoardo Shott abbandonò la politica attiva e si sposò con Marina Gratzer, di origini siciliane per parte di padre e slovene dal lato materno, insegnante di disegno, dalla quale ebbe due figlie, Mirella, nata il 17 novembre 1921 e Giocondina, nata nel 1926. La secondogenita, purtroppo, era affetta da idrocefalia, oltre che da paralisi spastica agli arti inferiori, il che non impedì che Mirella sviluppasse per la piccola Dina un profondo affetto – che forse anzi fu accentuato dall’infermità della piccola – destinato a durare per tutta la vita. In una breve ma intensa nota autobiografica, il volume di cui trattiamo riporta una drammatica riflessione relativa alla sorella: “I pianti di mia sorella mi ferivano l’anima, mi chiudevo nell’intercapedine della doppia porta tra l’anticamera e il corridoio e pregavo un dio universale di morire al posto suo”. Oltre a questa sororale condivisione del male, inevitabilmente, insorsero delle altre conseguenze psicologiche: “Il tutto era aggravato del fatto che i miei si preoccupavano della salute di Dina e non di me, e spesso mi dicevano: «Stai zitta tu che stai bene» e mi facevano pesare il fatto che io ero sana e non ammalata”.

Dina seguirà un percorso formativo con insegnanti privati che la incontravano in casa, mentre prima di lei la sorella intraprende il suo curriculum scolastico in una scuola privata, presso Villa Haggiconsta a Sant’Andrea, propedeutica all’iscrizione alla più prestigiosa scuola pubblica della città, il Ginnasio-liceo “Dante Alighieri”, allora nell’antica sede di Largo Panfili.

Negli anni del liceo, Mirella pose in famiglia il problema della prosecuzione dei suoi studi dopo la licenza liceale, chiedendo di poter frequentare l’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma il progetto incontrò l’opposizione del padre, che tuttavia si stemperò nel consentire alla figlia di seguire un corso di preparazione all’Accademia tenuto da Renato Brill, a condizione che non ne risentisse il rendimento al liceo. Dal momento che il profitto scolastico rimaneva alto, le consentirono in seguito, nel 1936, di ricevere lezioni private da uno degli artisti più in vista a Trieste, e fu così che la vita della giovane liceale si intrecciò con quella di Carlo Sbisà, dapprima valente insegnante, successivamente divenuto amico col quale era intenso lo scambio culturale e le valutazioni di carattere artistico.

La serenità di quegli ultimi anni di scuola venne bruscamente a interrompersi mentre Mirella frequentava la terza liceo, allorché furono promulgate le leggi razziali: molti suoi compagni dovettero abbandonare gli studi e fu dolorosamente colpita dalla notizia di uno studente che, assieme all’intera famiglia, scelse di suicidarsi con il gas, presagendo gli esiti estremi delle persecuzioni antisemite. Lei, incoraggiata anche da Giani Stuparich, suo insegnante al liceo, poté completare l’anno scolastico essendo ebrea soltanto da parte di padre. Fu così che, nell’estate del 1939 sostenne gli esami di maturità; dopo gli orali, uscita dalla scuola, trovò ad aspettarla, con sua “grande sorpresa e gioia” Carlo Sbisà: con tutta evidenza, l’inizio di una bella storia. Una storia fatta di un gran disegnare (“ma sempre – annota lei – a sua immagine e somiglianza”), di lunghe escursioni sul Carso (ma sempre accompagnati dal papà di lei o dalla sorella di lui), finché risultò incomprimibile il desiderio di sposarsi, che però fu avversato dalle autorità che impedirono la celebrazione delle nozze, in quanto la ragazza era figlia di un ebreo. La situazione fu poi risolta dalla Chiesa, che su pressanti richieste di Carlo a un cugino, frate Giacinto, destinato a divenire in seguito arcivescovo di Gorizia, indusse il vescovo di Trieste, Antonio Santin, ad acconsentire a che fosse celebrato un matrimonio solo religioso che fu officiato il 10 giugno del 1943.

Il periodo, naturalmente, non era dei più felici, soprattutto a Trieste, inglobata nell’Adriatisches Küstenland e soggetta quindi a un diretto controllo del Reich nazista. Alcune conseguenze non si fecero attendere soprattutto dopo l’8 settembre, quando i tedeschi requisirono la villa di Opicina occupata dagli Shott e dalla giovane coppia intimando di abbandonarla entro ventiquattr’ore, senza asportarne nulla. Furono lunghi mesi di angosce e di privazioni: Mirella ricorda il primo anniversario di matrimonio passato in un rifugio anti aereo, mentre la città subiva il più grave bombardamento della sua storia, come pure i colori fatti in casa, nell’impossibilità di trovarne nella stentata economia di guerra. Ma si trattava comunque di piccoli drammi, le tragedie vere erano altre, come fu per Arturo Nathan, grande amico di Sbisà dapprima spedito al confino, poi nel campo di sterminio dove trovò la morte.

Passò, alla fine, la guerra, passò anche l’occupazione titina di Trieste.

Nel ’46 Sbisà organizzò una sua personale a Milano, e fu così che anche Mirella venne in contatto con l’elite intellettuale milanese, conoscendo Sergio Solmi, Garibaldo Marussi, Lodovico Lanza ed Elio Vittorini, che contrastava con Carlo in quanto, essendo militante comunista, era favorevole al passaggio di Trieste alla Jugoslavia. Tra gli artisti, la coppia triestina fece conoscenza con Giacomo Manzù e con Domenico Cantatore, ma la mostra di Sbisà non ebbe un particolare successo, perché il clima culturale era cambiato, orientandosi decisamente verso l’astrattismo, il che lo indusse a cercare altre strade, suggerendogli l’adozione di nuove tecniche e inducendolo quindi a cimentarsi con la scultura e poi con la ceramica.

Furono anni molto intensi per i due artisti, quelli che seguirono immediatamente la guerra, consumati in un crescendo di attività artistica da parte di Mirella, che cercava in quell’ambito una sua strada autonoma rispetto a quella del marito, pure lavorando sempre al suo fianco e accompagnandolo in frequenti spostamenti a Venezia, a Roma e altrove, dove s’incontravano con numerosi amici intellettuali ed artisti.

L’unione tra i due si cementò ulteriormente con la nascita delle due figlie, Marina, nel settembre del 1947, seguita, nel 1952, da Paolina, anche se naturalmente sottraevano tempo all’attività soprattutto della madre.

Carlo e Mirella s’erano accostati assieme alla ceramica, dando vita a un sodalizio artistico che produsse con successo ceramiche dipinte recanti il marchio CSM (acronimo di Carlo Mirella Sbisà): il marito si occupava del modellatoe la mglie della pittura e della smaltatura. Oltre a ciò, Carlo aveva fondato nel 1960 la Scuola Libera dell’Acquaforte, che si qualificò dall’inizio come uno dei principali strumenti formativi per artisti sia giovani che di lunga esperienza, che intendevano affrontare le tecniche calcografiche.

Tutte queste ferventi attività artistiche, come pure il sereno idillio famigliare, ebbero una brusca interruzione nel 1964, con l’improvvisa scomparsa di Carlo Sbisà.

Oltre al danno esistenziale di tale perdita, Mirella dovette affrontare anche una difficile situazione economica; anche se poté godere dell’aiuto del padre, si trovò comunque a dover far fronte alle esigenze proprie e delle figlie e qui si rivelò appieno la tempra di cui la donna era dotata. Pur essendo quasi a digiuno nelle tecniche incisorie, volle continuare, aiutata in un primo tempo da amici artisti, l’opera del marito nell’ambito della Scuola Libera dell’Acquaforte, che diresse personalmente fino al 2003, quando cedette la responsabilità a Furio De Denaro e quindi a Franco Vecchiet, che ne regge le sorti ancora oggi.

Fu in quell’ambito che Mirella consolidò nei decenni seguenti il suo ruolo di primo piano nella vita artistica della città, consolidando nel tempo un suo percorso artistico, indagatore del paesaggio, quello carsico in particolare, dove trovò singolari consonanze col suo modo di intendere la realtà e di reinterpretarla nell’opera. Fu soprattutto nella sua direzione della Scuola libera intestata al coniuge che esercitò una sua discreta e schiva influenza su quanti si accostarono, nel corso dei decenni, alle tecniche calcografiche. L’arte e la cultura giuliana le devono molto.

 

 

Copertina:

 

Mirella Shott Sbisà.

Una vita di donna nell’arte

e nella cultura di Trieste

del Novecento

A cura di Paola Sbisà

Vita activa, Trieste 2016

  1. 92, euro 12,00

 

Carlo Sbisà

Mirella

1944, olio su cartone telato

collezione privata