Alfonso Mottola, fotografo a Trieste

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Una mostra a Palazzo Gopcevich

di Paolo Cartagine

 

Avrebbe compiuto cent’anni il 13 ottobre scorso Alfonso Mottola. Nato nel 1921 a Pavia, si trasferì nel 1934 con la famiglia a Trieste, dove sposò la signora Annamaria e dove nacquero i loro tre figli.

Più defilato rispetto ai colleghi che si occupavano della fotocronaca per la stampa quotidiana, Mottola è stato uno dei più prestigiosi fotografi di Trieste della seconda metà del secolo scorso.

Aveva fondato la ditta Astra Foto Cine con sede nel negozio di via Carducci 10, attiva dal 1951 al 1999, assieme al fratello Silvano (prematuramente scomparso e che si occupava della sezione filmica) e alla sorella Mina (che seguiva la parte organizzativa, deceduta lo scorso ottobre). Alfonso Mottola ci ha lasciato nel 2008.

A Palazzo Gopcevich è conservata la sua produzione fotografica, e fino al 27 febbraio è visitabile la Mostra “L’archivio di Alfonso Mottola nella Fototeca dei Civici Musei dei Storia ed Arte di Trieste. Non solo fotografie”, curata (unitamente al catalogo) da Claudia Colecchia, responsabile della Biblioteca e della Fototeca medesima.

Un’antologia rappresentativa dei temi affrontati in tanti anni di professione, riferibili soprattutto a ritratti di scrittori e artisti (fra cui Marin, Tomizza, Magris, Rosignano, Spacal, Zigaina, Mascherini, per il quale aveva curato libri, cataloghi e mostre), all’ambiente urbano di Trieste, al territorio circostante, alla vita contadina del Carso, al connubio fotografia-poesia (in particolare assieme a Nora Baldi con un volume su Saba). Nel suo carnet figurano mostre e apparati fotografici che corredano diversi volumi di storia e cultura locale.

Mottola aveva progettato tre libri – oggi complementari alla mostra – con sue immagini di tipo documentale: Umile Carso del 1967 con presentazione di Stelio Crise; Le trincee del Carso oggi del 1968; San Giusto del 1970 (l’unico con alcune foto a colori di dipinti, affreschi e mosaici), con testi di Mario Mirabella Roberti, Antonio Ciana e Oscar de Incontrera. Redatti in collaborazione con Licia Ruzzier, furono pubblicati da La Editoriale Libraria di Trieste.

Aveva lavorato anche per la Soprintendenza e l’Archivio di Stato di Trieste (opere e arredi del Castello di Miramare) e di Padova (il Duomo e il Palazzo del Bo), le Assicurazioni Generali, la Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste, la Regione Friuli Venezia Giulia, e l’Università di Tulsa (USA) con un volume su Joyce. Aveva inoltre prodotto la pubblicità per importanti ditte triestine note in tutto il mondo.

Anche i non esperti di fotografia troveranno da subito appagante e significativa la mostra.

Chi ha vissuto quel periodo proverà forse un po’ di nostalgia nel rivedere un mondo che non esiste più, e potrà “misurare” la distanza fra ciò che è accantonato nei propri ricordi del passato e le sensazioni di ora restituite dal rettangolo dell’inquadratura.

Attraverso il contenuto informativo dell’esposizione – il cui nucleo centrale copre oltre un quindicennio a partire dalla metà degli anni ’60 – coloro che sono venuti dopo potranno magari scoprire modi di vestire di giovani e anziani, attività economiche grandi e piccole (oggi scomparse) sulle Rive, in Cavana e in Borgo Teresiano, una Piazza Unità aperta alle automobili.

Fotografie che consentono di leggere una Trieste sospesa (e al contempo realistica) fatta di situazioni di “giornate qualsiasi” dove nulla sembra esser degno di nota, di momenti che in pratica passano inosservati in quanto usuali nello scorrere della vita dell’uomo. Non dunque eventi straordinari, circoscritti e fortemente connotati che si imprimono nella mente, ma l’ordinario susseguirsi di “anonimi” episodi del mestiere di vivere a cui non prestiamo attenzione, e che, a ben considerare, rappresentano la maggior parte del percorso di ciascuno di noi.

Una scelta opposta a quella dei fotoreporter che, invece, davano testimonianza della cronaca e dei cambiamenti della società che toccavano anche Trieste: la contestazione studentesca, le lotte sindacali, gli scioperi per la chiusura del Cantiere San Marco, l’attentato alla SIOT, la rivoluzione di Franco Basaglia.

Mottola fotografava con un stile classico, piano, comprensibile – ma tutt’altro che scontato, banale o stereotipato – per comporre una ricerca finalizzata a cogliere, con delicatezza ed empatia, vari aspetti umani non agli onori del primo piano ma essenziali per completare la descrizione di quegli anni. Il suo obiettivo era catturare senza incongrui artifici o abbellimenti ciò che si presentava allo suo sguardo curioso, al contempo ben conscio che ogni fotografia non è un documento oggettivo bensì un’interpretazione soggettiva dell’autore.

Dato che “la tecnologia non sostituisce il pensiero”, aveva cura di realizzare le sue immagini in modo tale che lo spettatore potesse trovarvi elementi utili per un’adeguata lettura. Lo scopo? Guidare l’osservatore il più vicino possibile alla puntuale comprensione del relativo contenuto, perché sosteneva che “le foto vanno capite, non ammirate”.

In sostanza, Mottola intendeva davvero comunicare attraverso un linguaggio fotografico semplice, preciso, accessibile e non superficiale.

Sottesa a queste scelte concettuali e operative – come si nota visitando la Mostra o immergendosi nei tre libri citati – c’è una solida struttura che fa nascere, in chi guarda, una serie di associazioni mentali. Infatti, una foto costruita in un certo modo e collocata in una determinata posizione (rispetto alle altre) viene percepita e interagisce in maniera diversa a seconda del singolo osservatore. Molteplici pertanto le sensazioni e le riflessioni possibili in un tragitto individuale che va oltre la fotografia per cercare analogie e differenze, continuità e discontinuità fra ieri e oggi. Dal contesto urbano del centro Città (ancorché l’assetto architettonico sia stato salvaguardato) al Carso, la cui economia non è più legata, come allora, alla faticosa attività agricola minuta di sostentamento familiare.

Chi lo ha conosciuto ricorda che, con i suoi clienti, il Signor Mottola usava “il lei”.

Garbati confronti con voce pacata e cortese nel piccolo spazio di via Carducci 10, ricchi di consigli su composizione fotografica e accorgimenti di ripresa, su pellicole e stampe di diapositive in cibachrome appena giunte dal laboratorio di fiducia sito a Padova. Invece le immagini in bianco e nero le stampava lui nella sua camera oscura, collocata nel soppalco del retrobottega, il cui accesso era talvolta consentito solo ai conoscitori di tale tecnica.

Indimenticabile la sua esortazione preferita: «e si ricordi, ogni volta che osserva una foto, specie se è sua, si soffermi almeno un minuto e scoprirà sempre qualcosa che prima non aveva notato, e così quell’immagine le regalerà significati sempre nuovi».

Perché non mettere in pratica questo suo suggerimento ed esplorare così, con modalità lenta, le foto in Mostra al Gopcevich?

 

Vendemmia

Santa Croce (Trieste)

seconda metà anni ’60