Altri racconti di Pino Roveredo

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di Walter Chiereghin

 

Un altro volume di racconti sfornato qualche tempo fa da Pino Roveredo nell’ambito del suo contratto con la Bompiani: Mastica e sputa. Non so come il marketing della casa editrice abbia lasciato passare questo titolo, forse soltanto perché si tratta di una citazione da un testo di Fabrizio De André, Ho visto Nina volare, che ha offerto il titolo, oltre che al volume, anche a uno dei racconti più indovinati, strutturato su una storia plausibile, anche se amarissima, di un uomo che perde tutto, Nina compresa, per essersi trovato al momento sbagliato nel luogo sbagliato. Una leggerezza pagata a prezzo da usura.

I ventisei racconti che compongono la raccolta rivelano, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello dello stile, una non comune coerenza rispetto alle precedenti prove dell’autore, in un itinerario bibliografico ormai di tutto rispetto, partito vent’anni fa con il libro-rivelazione, Capriole in salita, un’autobiografia che trasudava sincerità, il percorso di maturazione e di redenzione di un uomo che cercava di riscattare una vita di abiezione, di autolesionismo, di rese e di dipendenze che s’inanellavano le une sulle altre. Quel libro, più che un romanzo-confessione si qualifica come una terapia che ha cambiato radicalmente la vita di Roveredo, contribuendo a far sì che un emarginato si trasformasse in un apprezzato scrittore, dapprima edificando una sua solida fama a livello locale, poi proiettandolo più in alto, fino al Campiello nel 2005, con Mandami a dire, prefato da Claudio Magris. Un “cursus honorum” invidiabile, vissuto senza eccessivi scostamenti dalle condizioni di partenza; sotto il profilo dei contenuti, in quanto personaggi ed ambienti trattati sono sempre analoghi, storie di uomini e donne ai margini della società, che pagano a duro prezzo le loro biografie di difficoltà economica, di malattia, di dipendenza da alcol e droghe, attraverso la solitudine, il carcere, il manicomio (quando ancora esisteva). Contesti e storie assai presenti all’autore, che non per caso, in esergo al volume, lo dedica “A tutti gli ultimi e penultimi in classifica”, storie presenti a Roveredo per la sua personale esperienza e anche per il suo successivo impegno sociale che si concreta – nel tempo lasciato libero dalla scrittura – in ambienti quali le comunità terapeutiche, le strutture psichiatriche, il carcere del Coroneo. Sono le storie in cui meglio s’esercita la narrativa di Roveredo, dettata all’autore da una capacità di compassione, nel senso latino di patire cum, che sembra percepire i suoi personaggi – a volte inventati, altre volte effettivamente incontrati – con un senso di profonda fraternità. Nascono così, per limitarsi a quest’ultima prova narrativa, figure come quella della donna che si confessa allegramente alla madre nel racconto che apre il volume (Tutto a posto), oppure come Angela, incontrata in un archivio abbandonato di manicomio, contenente l’impolverata cartella clinica (il titolo del racconto è Polvere) di una bambina internata che manifestava come principale disturbo l’esigenza di essere presa in braccio, oppure, tolto dalla cronaca di qualche anno fa, la vicenda amara e kafkiana di un noto protagonista dello spettacolo (L’uomo delle domande) proiettato nell’inferno processuale carcerario. A tutto tondo, poi, la figura della signora Mafalda, che vive i suoi ultimi anni sciorinando maledizioni barocche dal suo tavolo d’osteria, dove sarà ricordata anche post mortem dall’oste (“magnaccia degli alcolizzati”), che continuerà a servirle il suo bicchiere di vino che lei continuerà a sorseggiare, in un improvvisa svolta verso il realismo magico del narrare.

In alcuni altri racconti, la stralunata denuncia della realtà surreale della condizione penitenziaria, come in Una vacanza carceraria, odissea di un trasferimento di un detenuto che subisce la suppletiva condanna di un interminabile trasferimento da un carcere all’altro, destinazione finale “sorpresa”, in altri racconti il ritratto appassionato e indelebile di altre vite bruciate, come quella di Sonia, La ragazza della panchina.

Non tutti i brani della raccolta sono racconti in senso stretto. Capita difatti di imbattersi in divertiti elzeviri, come in Faggioli (no, non si tratta di un errore di battitura, la seconda g ce l’ha messa Roveredo), in cui, anche se l’incipit rivela il carattere autoironico dell’autore, la narrazione, autobiografica in questo caso, riprende agevolmente il sopravvento, conducendo il lettore all’interno dell’orfanotrofio dell’ECA, acronimo per Ente Comunale di Assistenza, rivoltato dai giovanissimi ospiti in “Entrata Cani Affamati”, dove l’autore trascorse gli anni della sua prima formazione, essendo impossibilitati a mantenerlo i due genitori, entrambi sordomuti. La memoria degli affetti familiari, problematici e conflittuali, ritorna in altre pagine di un’autobiografa intermittente che s’insinua tra le pagine d’invenzione, come in Ti ricordi padre oppure in Buonanotte, dove con struggimento viene evocata la sua “camera bambina e il silenzio assoluto di [sua] madre sordomuta”o nel lucido riesame di esperienze dolorosamente vissute, come in Lo facevano tutti.

Altre pagine del volume sono poi dedicate ad ambiti diversi da quelli ricorrenti dei quali si è detto; abbiamo così quasi una presentazione di Trieste, città natale e di residenza dell’autore (Girate la cartolina), altre pagine dove trapela la sua passione civile (penso a Ballata della bela vita), persino un ironico taccuino di viaggio (Tour de Paris), oppure ancora, esilarante, il resoconto di un trasferimento mancato a Lubiana con la Golf di Claudio Magris, che ci rivela i nostri due scrittori come irredimibili ma divertenti imbranati (Aspettaci, Lubiana).

A prestare supporto a una così articolata messe di memorie o d’invenzioni è una prosa che non ci si attenderebbe, soprattutto nell’esposizione di materie così dure e così drammaticamente contemporanee: un’autentica prosa d’arte, giocata nella pencolante incertezza di muoversi sul filo di un confine tra prosa e poesia su cui pochi, oggi, si avventurano, un territorio fertile in cui spesso viene ricercato e a volte trovato l’effetto stupefacente, la sintesi illusionistica tra accostamenti inusuali e divaricati ossimori. Se tale procedere della scrittura di Roveredo può risultare a momenti faticoso e al limite dell’artificio, bisogna tuttavia riconoscere all’autore il merito di una coerenza stilistica che non si è mai discostata dalla modalità degli esordi, rimanendo quindi fedele a una costante ricerca di autenticità. Una scrittura, quindi, fondamentalmente onesta e di questi tempi non è davvero cosa da poco.

 

 

Copertina:

 

Pino Roveredo

Mastica e sputa

Bompiani, Milano, 2016

pp.186, Euro 15,00