ANATOMIA DELLA CITTÀ “IRREDENTA”
Le “Lettere Triestine”: l’esordio di Slataper vociano

Immaginiamoci questo bel ragazzone con un benaugurante cognome straniero, Slataper, in italiano traducibile con Pennadoro, ancora fresco di liceo che arriva a Firenze, con un curriculum esiguo di alcuni articoli scritti su giornali di una remota città dell’alto Adriatico abitata in prevalenza da italiani, ma sotto dominazione austriaca, conosciuta dalle classi colte soprattutto grazie a due Odi barbare del Carducci, Miramar e Saluto italico, che il poeta maremmano compose in esito a un suo breve viaggio compiuto assieme a Lidia a Trieste, dove i due soggiornarono tra il 7 e l’11 luglio 1878. I versi eruditi ed enfatici di quei due testi, comunque, poco potevano contribuire a formare un’immagine nitida nella mente dei lettori che cercassero di farsi un’idea circa quell’estremo lembo della penisola.

Chi sicuramente pose rimedio alla carente informazione che si sarebbe potuta estrarre dai versi del Carducci fu proprio il bel ragazzone triestino, approdato sul finire del 1908 a Firenze, presso il cui Istituto di Studi Superiori desiderava coronare la propria formazione. Poco dopo il suo arrivo esce, il 20 dicembre 1908, il primo numero di una nuova rivista, La Voce, fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini, della quale non sfugge al giovane Slataper l’importanza e lo spirito d’innovazione che anima i propositi del settimanale, tanto che poche settimane più tardi invia una lettera al direttore in cui annuncia di essersi abbonato, dichiara di voler contribuire a diffondere la rivista a Trieste e si candida, con giovanile sicurezza, a collaborare: “Avrei piacere la mia città – tagliata fuori dalla vita intellettuale del regno – conoscesse la Voce. E forse anche a voi non dispiacerebbe l’esposizione delle principali condizioni nostre in fatto di arte e di scienza. Che le pare?”. (lettera del gennaio del 1909). Pare bene a Prezzolini, di soli sei anni più anziano di Slataper, l’idea del candidato collaboratore, se qualche settimana più tardi, e precisamente sul numero 9 dell’11 febbraio, compare il primo dei cinque articoli che compongono le Lettere triestine; gli altri seguiranno a intervalli di due settimane uno dall’altro.

Fin dal titolo di tale primo articolo, Trieste non ha tradizioni di coltura, Slataper affronta di petto e senza reticenze un’approfondita disamina circa le connotazioni intellettuali della sua città d’origine, articolandola su più piani, in ciascuno dei quali viene preso in considerazione un singolo aspetto della vita culturale triestina dell’epoca, iniziando da considerazioni generali che parrebbero oggettive, se il titolo assegnato all’articolo non denunciasse un giudizio già perfettamente elaborato e certo assai poco accomodante. Prima ancora delle considerazioni generali, tuttavia, e di una pretesa oggettività, un passo nelle prime righe dell’articolo denuncia uno scenario che da un lato fa risalire la carenza di “tradizioni di coltura” a una troppo effervescente crescita economica (“Trieste, da qualche decennio, si sente una città importante. S’è risvegliata un giorno tra una cassa d’agrumi e un sacco di caffè, pensando che avrebbe dovuto – per la salute – accordare la sua vita ad altro ritmo oltre a quello dello sbuffo di una macchina, e allietarla non solo con la melodia dell’argento nelle tasche del larghissimo panciotto”), da un altro lato pone subito la questione della competizione con gli slavi (… in lei […] la lotta per la propria nazionalità – s’avvide nel risveglio – dovrebbe essere fautrice di coltura. Fortunatamente, perché quasi soltanto la resistenza intellettuale è capace di ottundere la gran virtù penetrativa, entusiastica degli slavi”).

Fissati dunque fin dai primi paragrafi questi due concetti della mentalità mercantile ottusamente ispirata soltanto dalla sete di materiali guadagni e la necessità di contrapporsi, fidando in un’asserita superiorità della cultura latina, alla penetrazione degli slavi, l’autore può dedicarsi alfine a descrivere la storia recente della città, riportando dati statistici sul suo incontenibile incremento demografico, conseguente alla proclamazione del porto franco. L’esposizione dei crescenti numeri indicanti la popolazione cittadina è funzionale al ribadire il carattere internazionale e interetnico delle masse che arrivarono a Trieste, senza tuttavia che ciò induca l’autore dell’articolo a coglierne i risvolti positivi, anzi: “… come si può pensare a formazione d’intellettualità cittadina quando buona parte delle famiglie non sono triestine, né italiane? E i nostri nomi (il mio! slavo puro) lo dimostrano”.

Fissati nell’articolo introduttivo delle Lettere i caratteri distintivi, l’autore passa fin dal secondo articolo della serie, Mezzi di coltura, a procedere a un sistematico esame analitico delle strutture che la città delega a diffondere e incrementare la cultura. Iniziando da un inventario, a partire dagli istituti comunali (biblioteca – con archivio storico – museo artistico, museo d’antichità e lapidario, museo di scienze naturali, l’università del popolo e le biblioteche circolanti. E poi le società, quello che oggi chiameremmo l’associazionismo culturale: la “Società di Minerva”, il “Circolo di studi sociali”, l’”Esposizione permanente”, il “Teatro Popolare”. Un’elencazione non miseranda, considerando la costituzione relativamente recente di ciascuno di questi istituti, per i quali Slataper suggerisce un profilo critico che, considerata l’estensione dell’argomento, deborderà al di fuori dei limiti imposti dalle dimensioni del singolo articolo.

Inizia dal “museo artistico”, quello che oggi conosciamo come “Museo Revoltella” e lo fa “non perché sia il più importante: mi disturberebbe dir male subito da principio. E di questo Museo si può dire sin coscienza sufficiente bene”. Tracciatane con brevi argomenti la storia allora non ancora troppo lunga, lo identifica come galleria di arte moderna, criticandone la politica di acquisizioni, in quanto, anziché arricchire la collezione di ulteriori opere per esempio del Veruda, “artista migliore” tra i triestini, mentre “la Commissione del Museo compra invece dall’Esposizione di Venezia diverse opere né significative né belle; e con una svogliatezza tentennante e pigra […] che fa mal sperare per l’imminente”. Non sono più concilianti neppure le sue considerazioni sulla progettazione espositiva delle opere, posto che “per vedere qualche tela bisogna munirsi di cannocchiale; son poste in sale inaccessibili, perché si teme che il pubblico rompa un brutto vaso del valore di molte molte miglia di lire”.

A parte l’Orto Lapidario, non risultavano a Slataper in condizioni migliori i due altri musei cittadini: per ragioni di spazio entrambi, con l’aggravante, per il Museo di Storia Naturale, di dividere gli spazi con due scuole, con la chiassosa allegria che tali presenze implicano, e con la Biblioteca: “Dal Museo […] ad essa pare ci dovrebbe essere per precauzione un gran salto. Invece a Trieste la stretta parentela dell’alcool con la carta è separata solo da un soffitto: nel terzo piano quello, nel secondo questa”. È storia che si protrasse fino a un recente passato, ben noto ai frequentatori della Civica anche dei giorni nostri. La descrizione slataperiana della storia e della condizione d’inizio Novecento della Biblioteca prosegue con un tono irridente ai limiti della crudeltà e un’osservazione riassuntiva (“essa è – mi servo di sintesi triestina – in malora”) sembra congiungere quel passato, purtroppo, al nostro presente. La divertita iconoclastia di Slataper non si limita, tuttavia, alla segnalazione delle carenze della veneranda istituzione pubblica, ma ne individua anche le responsabilità, in primo luogo degli amministratori della città che “si occupano semmai di coniglicultura” e anche del direttore Attilio Hortis, cui riconosce molti meriti in ambito culturale, ma nessuno in ambito bibliotecario.

Com’era da aspettarsi, la pubblicazione – anche parziale – delle Lettere scatena a Trieste una grandinata di polemiche controdeduzioni, di piccate repliche, di valutazioni ingiuriose, ma il giovane redattore della Voce non se ne preoccupa più che tanto. Il terzo articolo, Altre istituzioni di coltura, si apre con una non breve serie di considerazioni che sono con ogni evidenza figlie delle reazioni – composte o scomposte che siano – che si materializzano a Trieste, dove si sono sentiti aggrediti tutti gli ambienti culturali e politico-amministrativi della città, saldamente in mano, gli uni e gli altri, al dominante partito liberal-nazionale. E l’anamnesi procede, stavolta compiaciuta per quanto attiene alla Biblioteca circolante popolare”della quale Slataper esibisce alcuni dati statistici: nel 1906 la biblioteca può contare su 8.000 opere, rispetto alle 3.000 iniziali, date in lettura ai 1.875 utenti, con 122.021 letture, e positiva anche nei riguardi della “Mostra permanente d’arte”, che attira pubblico in una bella sala sulla piazza principale,che è tra la istituzioni culturale che possono fregiarsi di una valutazione positiva da parte dello Slataper, non fosse che per il fatto di essere istituzione “più commerciale che di coltura. […] Perciò: nessun criterio nell’accettazione, sopraffazione del genere esitabile, inservilimento della concezione artistica a quello che va. Per di più l’artista, perché gli si compri cinquanta centimetri di tela, ne produce diversi metri quadrati, e di tutti i gusti. E così il pubblico, senza buon intuito, domina invece di esser dominato.”

È la volta dell’Università popolare “nata e cresciuta con una malattia d’ambiente: la preoccupazione contro il socialismo e i socialisti”, nata difatti in opposizione al Circolo di studi sociali, d’ispirazione socialista fondato da Michele Susmel nel 1899, cui Slataper tributa ampie lodi per l’azione culturale che esercita: “noi dobbiamo ai socialisti l’aver conosciuto Lombroso, Ferrero, Salvemini, Labriola […] l’aver sentito parlare, per la prima volta; di Mazzini e di Garibaldi da Salvemini e Ferri […] dopo il 1902 il Circolo socialista fa propaganda di coltura, di coscienza, di spirito italiano.e dunque anche del socialismo italiano: ma «anche» e «italiano»”. E qui s’innesta, beninteso dopo aver criticato anche il Circolo per il suo proporre iniziative con “passo troppo lungo; gli operai, e in genere la cittadinanza, non possono stargli a paro”, una polemica aspra rivolta contro il partito liberal nazionale, maggioritario al Comune, che esercita la sua politica culturale a solo beneficio della borghesia e comunque sempre a danno dei socialisti, davvero considerati lo spettro che s’aggira per l’Europa, contro le cui iniziative anche culturali nulla viene lasciato al caso, dal boicottaggio delle manifestazioni del Circolo o del Teatro popolare, sua filiazione, alla mancata assegnazione di fondi pubblici, riservati (anche allora) agli “amici degli amici”.

Nel quarto articolo, La vita dello spirito, Slataper sospende la minuziosa rassegna delle realtà istituzionali che agivano a Trieste in ambito culturale per addentrarsi in una valutazione più complessiva che mettesse in evidenza limiti e potenzialità della città. Emergono in questo testo alcuni degli argomenti che più hanno agitato le coscienze e il dibattito politico negli anni che hanno immediatamente preceduto il primo conflitto mondiale: il problema di un’università italiana a Trieste e, naturalmente, il problema dei problemi, quello della nazionalità della città “irredenta”.

Cercando di astrarsi dalla propria cultura prettamente letteraria, Slataper crede di individuare che anche nell’attività commerciale che è quella trainante nell’economia cittadina si renderebbe opportuna, per favorire la crescita, un’adeguata formazione culturale anche specifica, lamentando quindi l’assenza di un istituto universitario, fattore che contribuirebbe ad allargare e approfondire l’impegno scolastico, la cui assenza grava sull’edificazione di un più completo assetto culturale. Quindi “prospera ed ha sempre prosperato perciò il teatro: il divertimento senza fatica. Quello di musica però, per una causa più nobile, è uno dei primi d’Italia: il nostro popolo, nel senso largo, ha una disposizione alla musica molto fine. Basti dire che è insegnata da tre conservatori; e le serate musicali all’Università popolare sono una festa per Trieste.”

E ancora una riflessione sul senso d’isolamento che intimidisce e inibisce la cultura triestina, separata dalla madrepatria eppure padrona della lingua tedesca, alla quale tuttavia non sa e forse non intende attingere, spaventata dal “genio e dall’entusiasmo slavo” senza riuscire a trovare l’energia per conviverci. Una condizione esistenziale difficile, dalla quale comunque emerge il fatto che “Trieste è una città italiana, in modo diverso dalle città italiane.”

Nel medesimo articolo Slataper individua il paradosso triestino, di una città cioè divisa dal suo interesse economico, che la vedrebbe saldamente collegata all’Europa centrale e all’Austria, e quello patriottico, che l’allontana dal primo. “È il travaglio delle due nature che cozzano ad annullarsi a vicenda: la commerciale e l’italiana. E Trieste non può strozzare nessuna delle due: è la sua doppia anima: si ucciderebbe. Ogni cosa al commercio necessaria è violazione d’italianità; ciò che ne è vero aumento danneggia quello.” E prosegue, col consueto sarcasmo: “Sente l’importanza del tedesco e deve combatterlo; s’impaura per le banche slave e ne diviene cliente. Dissidi implacabili: indi i tristi compromessi, inutili, a placarlo.”

Quindi, quasi in chiusura, la constatazione: “Questa è Trieste. Composta di tragedia.”

L’ultimo articolo della serie riguarda I giornali, all’epoca fonte pressoché esclusiva di informazioni, il che spiega la quantità di testate pubblicate nella sola Trieste, che Slataper cita con malcelato orgoglio, quasi fossero i gusti del gelato sciorinati dal cameriere di un caffè, come lui stesso suggerisce. “Piccolo, Piccolo della Sera, Indipendente, Lavoratore, Emancipazione, Adriatico (è come una zucca conservatrice per far galleggiare un’ambizione personale, Osservatore triestino (la gazzetta ufficiale, e la più vecchia di Trieste: tanto basti), Coda del Diavolo (che vi pare di un Mefistofele che si traveste da nazionalista per la lotta elettorale, come certi mori in frac per attirare gente al cinematografo?), Edinost (potrei dargli addosso se conoscessi lo slavo), Triester Zeitung e Triester Tagblatt (fatti per il 6% dei triestini), Amico (i preti sono assai poco furbi a farsi rappresentare da un foglio così stupido)…”

La critica, serrata, ai quattro maggiori giornali, comprensiva di una divagazione su Silvio Benco, a qualche graffio (il direttore del Piccolo, definito “un Albertini [Luigi Albertini era all’epoca direttore del Corriere della Sera – n.d.r.] visto col binocolo rovesciato” conclude l’articolo e le Lettere.

Spiritoso e irriverente fino alla fine di queste Lettere triestine, che hanno avuto il merito di suscitare un vespaio di polemiche e di invettive, ma anche quello di offrire una serrata critica alla stagnante vita culturale (e politica) della città, cogliendone alcuni aspetti di inerzia e di staticità e ponendo quindi le premesse perché una nuova generazione di intellettuali giuliani si affermasse scuotendo la stagnante superficie di una società sospesa e non completamente conscia delle tempeste che stavano addensandosi su di sé e sull’Europa intera. Ma la portata di tali tempeste non era ancora nemmeno immaginabile nel 1909, né dal bel ragazzone con un benaugurante cognome straniero né da altri.

di Walter Chiereghin