Appunti personali

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di Silvia Zetto Cassano

 

Ray Jacobsen

Gli invisibili

Saga dei Barroy

Iperborea, 2022

 

Incipit: In un giorno di luglio senza vento, il fumo sale dritto verso il cielo. Ad accogliere il pastore Johannes Malmberget, giunto in barca, c’è Hans Barroy, pescatore e contadino, legittimo proprietario dell’isola e capo dell’unica famiglia che vi abita.

 

Il pastore Johannes viene e poi va, ma Hans resta. Qualcun altro va e torna, come sua moglie Maria, come Barbro, la figlia un po’ strana, come Ingrid, la piccola che va a scuola in barca. Lassù ci vivono solo loro. E gli animali. Pecore, un cavallo, gli edredoni, un gatto. E i pesci, naturalmente. Vivono di terra e di mare, i Barroy.

I Baroy coincidono con la loro isola. Jacobsen ci porta là. Ha questa capacità rara, è come ci fossimo, in quello sperduto arcipelago delle Lofoten.  Ci porta lontano nello spazio, ma del tempo non si preoccupa. Il tempo dei Barroy è fermo, immutato da sempre. È il tempo delle lunghe durate delle cose e dei gesti.

Che bello quando un romanzo ti fa andare in un posto del mondo di cui non sai niente e in cui niente succede, per 285 pagine, e non ti fa annoiare – come m’è successo ad Aci Trezza con i Malavoglia – e non è vero che non succede niente, succede qualcosa, sì, ma fuori dalla Storia, solo dentro quella dei Barroy, per loro vivere è esistere e sopravvivere, e, se arriva la tempesta, c’è il rischio che ti faccia volar via la casa, e tocca battagliare con le corde per fissarla per terra.

Ti fa spavento, quell’isola, se immagini di starci, ma, pagina dopo pagina impari ad amarla come di certo l’ama il signor Jacobsen.

 

«A Barrøy le case sorgono in un semicerchio irregolare. Viste dall’alto sembrano quattro dadi lanciati a caso – più la cantina per le patate, che in inverno diventa un igloo – collegati da viottoli in pietra, con stendibiancheria e camminamenti d’erba che si irradiano in tutte le direzioni. In realtà formano un cuneo contro il maltempo, così da resistere persino al mare, se mai dovesse rovesciarsi sull’isola. Nessuno può prendersi il merito dell’ingegnosa disposizione: è il frutto di una saggezza collettiva, fatta di esperienze pagate a caro prezzo […]. A Barrøy, quando Barbro era piccola, le bambine non avevano sedie. Mangiavano in piedi accanto al tavolo. Delle donne di casa solo sua madre Kaja poteva sedersi, e aveva cominciato a farlo dopo aver dato alla luce il primo figlio. Poi Kaja era morta e Barbro ne aveva chiesto per sé la sedia ma Hans l’aveva data a Maria, appena diventata sua moglie. Poco dopo anche Erling, il fratello maggiore, si era sposato e si era trasferito su un’altra isola più ricca. Dunque sia Barbro sia Maria avevano ottenuto una sedia, più o meno nello stesso momento. Ingrid invece aveva solo tre anni quando suo padre ne aveva costruita una apposta per lei, con i braccioli, sui quali si poteva appoggiare un’asse: lei avrebbe potuto sistemarcisi su con i piedi posati sulla seduta fino a quando non fosse diventata più grande, e allora sarebbe stata tolta l’asse. Era finita un’epoca».

 

 

Georges Simenon

Lettera al mio giudice

Adelphi, 1990

Ho letto tante di quelle storie d’amore. Romanzi e romanzetti, racconti e novelle. Descrizioni di palpiti, sperdimenti, affanni, deliri e amplessi. I rossori di Lucia Mondella ma anche le smanie di Emma Bovary.  Ho letto storiacce da vergognarsi a citarle, inventate da scrittori gastronomici che condiscono la loro pietanza da trattoria alla buona con verbi come schiudere, ansimare, divaricare ecc. ecc.

Poi ho letto la confessione che il dottor Charles Alavoine scrive al suo giudice, cioè a noi lettori: siamo noi i suoi giudici. Vuole spiegare, non cerca tanto la comprensione quanto una com-passione che solo chi ha condiviso o condivide il suo stesso demone gli può dare. È amore? È questa la parola?

«Se qualcuno mi chiedesse oggi da che cosa si riconosce l’amore, se dovessi dare una diagnosi dell’amore, direi ‘Il bisogno di   presenza, anzitutto.’

Intendo proprio un bisogno necessario, assoluto e vitale come un bisogno fisico.

‘Poi la smania di spiegarsi’.  La smania di spiegare noi stessi e l’altro, perché siamo così estasiati, vede, così consapevoli di essere di fronte a un   miracolo, abbiamo tanta paura di perdere quella cosa in cui non avevamo mai sperato, che il destino non ci doveva, che forse ci è stata donata per caso, da sentire continuamente il bisogno di rassicurarci e, per rassicurarci, di capire».

La storia comincia a La Roche-sur-Yon, un paesotto della piccola provincia francese. Notai, avvocati, possidenti e case-guscio a loro somiglianza. In una di esse vive il dottor Alavoine. Anzi non- vive. Ce lo racconta lui stesso: ci parla delle sue mogli, del suo ambulatorio, dei suoi giorni, ognuno uguale a quello che lo precede e lo seguirà.

Poi, a metà libro, la storia ha uno slancio, come in una canzone di Brel quando la linea della musica va in su. Compare Martine. «Era davvero un cosino da niente, sa” “un tailleur scuro molto elegante ma troppo leggero per la stagione, un cappellino minuscolo e strambo, una specie di fiore di raso calato sulla fronte. Viveva per mettersi in mostra. Doveva credere di essere molto carina, anzi lo credeva senz’altro».

Appare Martine e il tempo del dottor Alavoine si ferma. Ricorderà il punto esatto a partire dal quale ogni cosa sarebbe cambiata. «L’orologio della stazione, una gran luna rossastra sospesa nel buio, segnava le sette meno sei minuti». Lei scende da un taxi, chiede un biglietto allo sportello, lui è là. «Una seconda per La Roche-sur-Lyon, sola andata». Quei due lo perdono, quel treno. Camminano nella pioggia, vanno in un ristorante, bevono

un calvados, sono allegrissimi, vanno in un locale notturno «Le luci erano rosse, rosso il velluto dei sedili, rosa le pareti su cui erano dipinti dei nudi, rossi, infine, gli smoking sgualciti dei cinque sonatori che componevano l’orchestra. Martine voleva ballare, e io l’ho accontentata; così ho visto da vicino la sua nuca che era bianchissima, con la pelle così delicata che si vedeva l’azzurro delle vene, e qualche ciocchetta di capelli arricciati dall’umidità».

Comincia così, con quella nuca troppo delicata e bianchissima, la perdizione del dottor Alavoine. Il resto lo intuiamo, seguiremo sgomenti il procedere, incapaci di capire sia la voracità di Charles sia la cedevolezza di Martine.

È follia, potremmo dirci. Amour fou. Spaventoso, senza requie. Annichilire e annichilirsi. Da ringraziare il cielo che non sia toccato a noi.