Il secolo stupido

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Stiamo diventando tutti più stupidi, e la stupidità ha il dono di non subire mai l’onta di una qualche autoconsapevolezza

di Francesco Carbone

 

 

 

«E ora, semplicemente, la gente ha smesso di occuparsi della complessità.»

(Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Einaudi 2018)

 

«Perché un’idea possa fare un giro nel cervello di un coglione, occorre che gli capitino molte cose e molto crudeli.»

(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

 

 

Non si fa più l’amore come una volta, ed è una sciagura che pare preoccupi pochissimo. Luigi Zoja, psicanalista junghiano prestigioso, ci racconta in poche righe il passaggio dal secolo breve (ma dal sesso più lungo e vario della storia) all’attuale mondo di iperconnessi, di nativi e adottati digitali: dall’inizio del Novecento «c’è stato un aumento delle attività sessuali nel cosiddetto Occidente, sia come quantità che come varietà; ora, per la prima volta, i dati ci parlano di un crollo della sessualità nell’ultimo decennio» (L’Espresso, 17 marzo 2019). Non una flessione: un crollo, difficile da spacciare – come prova a fare l’attuale governo per il nostro PIL – per una recessione tecnica momentanea, in fideistica attesa del ritorno di una stagione bellissima.

È che pare ci sia sempre meno tempo, data la planetaria dedizione ai social: compresi quelli concepiti per incontri omo, etero e orge, nonché per la diffusione del porno, molto apprezzata tra i minori. Lo ha provato, negli Stati Uniti d’America, la ricerca di alcune università (San Diego State University, Università del Texas a Austin, ecc.) pubblicato sulla rivista Archives of Sexual Behavior: i giovani americani che arrivano vergini ai 18 anni sono il doppio dei loro coetanei degli anni Sessanta, con un calo di adolescenti dediti a sani rapporti sessuali del 20% dal 1991 al 2015.

Magnifiche sorti e progressive del XXI secolo: proliferano single e vergini; mentre pare che il sesso vada alla grande tra gli ultra-ottantenni. Dicono sempre quegli esperti americani: si passa talmente tanto tempo su internet che non resta altro tempo. Trionfa piuttosto, direbbe Leopardi, il vezzo di «fare all’amore col telescopio» (Preambolo alla ristampa delle Annotazioni alle Canzoni).

 

Se la cosa interessasse, di Jean M. Twenge, psicologa proprio dell’Università di San Diego, si può leggere Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti (Einaudi, 2018). Si impara così che la iGeneration (i nati dall’anno 2000) sta fluttuando in un’adolescenza sempre più simile a una post-infanzia. Declinano le relazioni sociali, crescono isolamento e disimpegno, con conseguenti problemi di salute mentale: fino a nuove forme di psicosi anche gravi. – Viene da dire che questa generazione potrebbe passare alla storia come la prima i cui pushers sono stati i loro stessi genitori, che hanno fornito ai figli tutti i dispositivi indispensabili per ridurli a uno stato di crescente asessuata obstupescenza. Molto impopolarmente, Tom Nichols ha proposto di innalzare l’età per votare a venticinque anni (La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2017).

 

Potremmo consolarci pensando che il sesso, come direbbe Marx, è una sovrastruttura; anche filosofi della grandezza di Origene, Abelardo ed Erasmo da Rotterdam, tutti per varie vicissitudini evirati, potrebbero assicurarci che è un orpello rinunciabile. – Il fatto è che, sempre per queste assai invasive incombenze virtuali, non c’è tempo neppure per diventare intelligenti. Si desertificano assieme i testicoli di spermatozoi (meno 60% negli ultimi quarant’anni) e i cervelli di sinapsi. A causare stupidità e sterilità concorreranno certo altre cause: diete con poco iodio ma molto mercurio, piombo pesticidi, ecc.; il diffondersi di sistemi scolastici evidentemente ridicoli; per non dire dell’evaporazione dei genitori. Fatta la tara di questo, resta il fatto che passare molto tempo della propria vita sui social, con la playstation e messaggiando emoticon facciano la loro parte.

Crolla la libido e crolla l’intelligenza: non solo Freud direbbe che tra i due c’è un nesso. Anche il termometro, per quanto discutibile e dal passato certo non adamantino del Q.I. (quoziente intellettivo) registra dati che stranamente non allarmano nessuno: tanto meno i politici, che piuttosto ne approfittano. Questo forse proprio perché stiamo diventando tutti più stupidi, e la stupidità ha il dono di non subire mai l’onta di una qualche autoconsapevolezza. Il fatto da sempre noto che si è sempre stupidi a propria insaputa, per cui più si è ottusi più si è convinti di non esserlo, l’attuale scienza sociale lo chiama effetto Dunnig-Kruger (dal nome di due studiosi della Cornell University. 1999). E già Kant aveva notato che dare un nome nuovo a una vecchia malattia la fa riscoprire come se non fosse mai stata vista prima.

 

Infatti, come tutte le vocazioni, quella di farsi scemi era stata coltivata da molto tempo e con cura. La pratica del Dumbing Down (propagare deliberatamente l’instupidimento) nacque – non poteva essere diversamente – negli anni Trenta negli Stati Uniti: a Hollywood. Si trattava del lavorìo tenace di specialisti adibiti alla riscrittura delle sceneggiature, per degradarne forme e contenuti al punto da poter essere digeribili dal pubblico più stupido e più ignorante.

Da allora, non c’è stata industria culturale e istituzione educativa che si sia sottratta: Tv, giornali, e soprattutto scuole. A disastro fatto, appena nel 2003 il ministro dell’università inglese Margaret Hodge criticò le lauree Topolino (“Mickey Mouse Degrees”), non solo stupide ma giustamente costosissime. Aveva già dilagato la scuola psicopatica e compulsiva, la cui mania bulimica è di fagocitare nel suo sistema più studenti possibili, scambiando quantità per qualità. I laudatores temporis acti chiamano questa inflazione che non ha fine (restano milioni i giovani occidentali che non cercano occupazione e non studiano da recuperare) inclusività: e guai a essere contro.

Su questo, John Taylor Gatto – premiato per tre anni di seguito migliore insegnante di New York – ha scritto Dumbing Us Down. The hidden Curriculum of Compulsory Schooling (New Society Publisher, 1992). Quanto alle università, si leggano le pagine di Tom Nichols, in cui racconta di open days dove si mostrano piscine, campi da gioco, camere comode ed eventualmente singole, mense da cinque stelle: tutto tranne la qualità dell’istruzione.

 

Nel diffondersi planetario del Paese dei Balocchi, i rari Grilli Parlanti, sparsi sparuti in un oceano di Pinocchi, non possono che fare la fine che sappiamo. Ed è da eroi insistere.

Tra questi, quanto al Q.I., a dare l’allarme cominciò la Norvegia: nella rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, Bernt Bratsberg e Ole Rosenberg comunicarono l’esito del loro screening su ben 730.000 giovani tra i 18 e i 19 anni. Risultato: dagli anni Settanta al 2009, il Q.I., è in caduta libera al ritmo di sette (SETTE!) punti a decennio. Il dato trovò conferme in tutti i paesi occidentali. Sarebbe così finito l’effetto Flynn: dal nome del professore emerito di scienze politiche, James R. Flynn, che aveva riscontrato un aumento di 3 punti di Q.I. per ogni decennio del XX secolo in tutto l’Occidente. In seguito alla ricerca norvegese, lo stesso Flynn si corresse e, ristudiando le performance intellettuali dei giovani britannici, mestamente confermò: calo del Q.I. tra il 2,5 e il 4,3 in ogni decennio a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Lo stesso è risultato un po’ dappertutto Né pare abbiano un ruolo le condizioni socio-economico-culturali, visto che, nelle stesse famiglie, i fratelli minori risultano più sciocchi dei maggiori.

 

Così, per quanto nell’indifferenza dei popoli e delle classi dirigenti, il tema della stupidità umana ha prodotto una quantità di studi talmente tracimante, da imporre non solo la padronanza di una bibliografia enorme, ma una invulnerabile saggezza personale. Mentre questo contagioso XXI secolo, che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima (L. Ariosto, Orlando furioso, 1532), rende a dir poco arduo restare savi abitando la stessa nave di folli.

Proponendo un breve elenco che potrebbe risultare già di per sé comico e deprimente, tra i saggi recenti si possono leggere: Armande Farrachi, Il trionfo della stupidità (Fandango Libri, 2018), Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi (Corbaccio, 2019) e La solitudine digitale (Corbaccio, 2013), Vittorino Andreoli, Homo stupidus stupidus (Rizzoli, 2018), Massimo Mantellini, Homo stupidus stupidus (Einaudi, 2018), Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici (Luiss, 2017), Derrick De Kerkhove, La rete ci renderà stupidi? (Castelvecchi, 2016); ai quali si potrebbe aggiungere il “classico” Internet ci rende stupidi? di Nicholas Carr (Raffaello Cortina, 2011), i molti esiti della ricerca di Byung Chul Han (Nello sciame. Visioni del digitale, Il neolinberismo e le nuove tecniche del potere, La società della stanchezza, ecc.: tutte pubblicate da Nottempo). Si potrebbe continuare per pagine.

 

Sono tutti libri che lasciano sospesa una domanda essenziale: se la stupidità sia un carattere specifico, come il colore degli occhi, di un certo numero di donne e di uomini, come tale non modificabile; o se le condizioni storiche in cui si vive condizionano l’evoluzione, o l’involuzione, dell’umana sagacia. Quel piccolo capolavoro che resta l’Allegro non troppo di Carlo Maria Cipolla (Il Mulino, 1998, riedito nel 2017) riconosce una frazione costante di stupidi nella storia umana, frazione – miracolo della leopardiana Natura – equamente distribuita in ogni ambiente: fosse un bar di periferia o un club di premi Nobel; condizionati da «una visione egualitaria dell’umanità», scrive Cipolla, ci saremmo dimenticati che gli stupidi e gli intelligenti non sono fatti della stessa pasta.

Vorremmo pensare che fosse così. Ma il prezioso libretto è precedente alla condizione di permanente connessione a Internet a cui siano tenuti adesso, e pare proprio che il web abbia cambiato tutto. L’uomo, «animale imitativo e d’esempio» (G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani, 1824) ha reagito da par suo alla rivoluzione digitale: già una ricerca della Microsoft aveva rilevato che la curva d’attenzione dei mortali, dal 2000 è scesa dai dodici agli otto secondi. In un’epoca che ama patologizzare tutto, si configurerebbe così un grave disturbo dell’attenzione, che è appunto uno delle varie patologie del pensiero codificate.

Nell’Enciclopedia della psicologia di Umberto Galimberti (Garzanti 1999, riedita nel 2018 da Feltrinelli), se ne elencano molte altre: la fuga delle idee, la prolissità, la circostanzialità, in cui il soggetto «si perde in pensieri di poco rilievo», la disgregazione, l’incoerenza, la confabulazione, la deconcentrazione, le idee dominanti e i deliri, che possono arrivare alla paranoia… Tutti casi che nel miliardo e mezzo di frequentatori di social network trovano un profluvio di conferme. O’Hagan ne ha ricavato una conclusione semplice: «siamo diventati schiavi del web molto prima di capire in che misura la tecnologia avrebbe cambiato le nostre vite», schiavi di una tecnologia che «è ormai un sistema di sorveglianza, una fabbrica di menzogne, un congegno portatile di marketing, una bacheca aziendale, una piattaforma globale per dogmatici e fanatici, oltre che un pratico strumento per potenziare la propria vita» (Andrew O’Hagan, La vita segreta. Tre storie vere dell’era digitale, Adelphi, 2017). Dove potenziare potrebbe essere una promessa come una minaccia.

 

Di fronte allo stesso paesaggio del nuovo «secolo superbo e sciocco» (Giacomo Leopardi, La ginestra, 1836), Massimo Mantellini (Bassa risoluzione, Einaudi, 2018) arriva ad altre conclusioni: «non siamo stati travolti dalla rivoluzione digitale, non siamo più stupidi o più infantili. È come se improvvisamente la tecnologia si fosse incaricata di ricordarci chi siamo». – Già, chi siamo? E se avessimo saputo in anticipo che stavamo per essere investiti dalle conseguenze di un’invenzione devastatrice di libido e intelligenza, per diventare un pianeta di ebeti eunuchi, qualcuno avrebbe avuto qualcosa da obiettare?