Architettura a Venezia

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Come vivremo insieme? il titolo e il quesito posto dalla Biennale Architettura 2021

di Enzo Santese

 

La 17ma Mostra Internazionale di Architettura di Venezia 2021, aperta dal 22 maggio al 21 novembre, con la ricchezza di idee che la attraversa è anche un bel segno di luce nuova dopo le opacità nebulose dei diciotto mesi precedenti. È l’evento più importante aperto alla partecipazione del pubblico dopo oltre un anno e mezzo di chiusure che hanno comportato gravi difficoltà per tutto il comparto della cultura in ogni sua articolazione. Per questo poteva essere un’edizione in tono ridotto, solo per delineare una prospettiva di ripresa, invece i contenuti distribuiti lungo i padiglioni dei Giardini, gli spazi dell’Arsenale e le sedi esterne disseminate in tutta la città, sono davvero significativi, e superano di gran lunga per qualità i progetti le tornate precedenti. La Biennale che segna anche il dato della rinascita dopo la sospensione pandemica ha un direttore il cui curriculum è contrassegnato da importanti realizzazioni e da una precisa attenzione ricondotta a una filosofia che ne governa ogni intervento: l’adesione alla natura non solo in forma di sensazione affettiva e retorica, ma di reale aderenza al concetto di armonica combinazione tra le esigenze del mondo fisico e le necessità legate all’architettura. Pertanto il titolo, solitamente una trovata nominalistica per identificare la manifestazione, questa volta rimanda a una perplessità di fondo generatrice di un interrogativo problematico: How will we live together? / Come vivremo insieme? È una domanda semplice nell’enunciato ma complessa nell’articolazione possibile delle risposte. Il quesito poggia su due concetti che sono, non a caso, i capisaldi significanti dell’idea di abitare: “vivere” e “insieme”. Il curatore della Biennale, Hashim Sarkis, è stato davvero stimolante nei confronti dei Paesi che partecipano alla kermesse lagunare e alcuni dei progetti meritano senz’altro una citazione. Per gustare complessivamente i contenuti di questa edizione la visita richiederebbe almeno tre giorni pieni, utili a suddividere i chilometri di percorso nelle tre principali sedi espositive, i Giardini, l’Arsenale e l’Around Town, i diversi palazzi e sale che punteggiano in maniera massiccia la città. Per chi voglia avere un contatto diretto con le proposte più interessanti riservando al resto uno sguardo un po’ frettoloso sarà utile tener conto di alcune specifiche situazioni che brillano per originalità e per consonanza con il tema della rassegna.

 

Le varietà del nuovo da un Padiglione all’altro

 

Cominciamo dai Giardini, con l’Australia: il progetto In/Between è percorso dalla vibrazione dell’ossimoro che cattura l’attenzione dell’osservatore il quale, in tal modo, interagisce direttamente con le evidenze costitutive dello spazio; infatti l’ambito di istallazione è dato da lunghi teli al posto delle pareti capaci di rendere fluido lo spazio occupato, che ha un pavimento ricoperto di terra rossa per un’esperienza immersiva dell’osservatore. Il Belgio ricorre a Composite Presence: 50 progetti architettonici sviluppati nell’ultimo ventennio e dislocati ad altezza del tavolo danno vita a uno scenario urbano fiammingo, in cui la forma (gli stili, le strutture) e le tipologie specifiche (le funzioni) convergono verso un’equilibrata corrispondenza alla necessità ecologica. La Corea esprime una riflessione più “filosofica” che concretamente architettonica: con il progetto Future School pensa a una pratica educativa sperimentale, “in cui viene sovvertita l’idea stessa dell’istituzione gerarchica”, per una per un’ipotesi di comunità strutturata su regole nuove.

La Francia allestisce un Padiglione in cui agiscono dialetticamente le competenze degli architetti e gli abitanti di cinque città di diversi continenti, sottolineando ottimisticamente la possibilità di agire direttamente sul proprio ambiente e non in forma mediata.

Il Giappone esalta le molteplici funzioni e la duttilità della tradizionale casa di legno che, per arrivare a Venezia, è stata smontata, caricata in un container e rimontata nello spazio che la ospita nei Giardini. È un modo per preconizzare un futuro in cui le migrazioni di persone possono comportare anche quello di abitazioni e cose.

La rassegna nel padiglione di Israele è composta da installazioni, modelli, brevi filmati e foto storiche, che raccontano le metamorfosi del paesaggio agricolo palestinese, in cui i miti dell’abbondanza e della ricchezza nella modernità hanno stravolto la fisionomia della regione.

Finlandia, Norvegia e Svezia, ospiti nel Padiglione dei Paesi Nordici, attingono al loro modello tipico di cohousing (abitazione comunitaria) e presentano un’installazione architettonica a grandezza naturale che si può esplorare in tutte le sue parti grazie a un apparato didattico molto efficace; centrale è il contributo di un gruppo di cittadini, chiamati a testimoniare gli effetti della condivisione delle loro esperienze quotidiane. È interessante così vedere fino a che punto le nuove modalità di abitazione possono funzionare in un regime di vita comunitaria.

La mostra Fading Borders (confini che sfumano) nello spazio della Romania apre un’ampia finestra di ricognizione sul problema bruciante delle migrazioni; indagango sulle ripercussioni registrate negli spazi abitativi per lo spostamento di masse di persone e propone un valore semantico della parola “insieme” diverso dall’abituale. La Spagna con la rassegna Uncertainty (Incertezza); è proprio l’incertezza del presente a evocare il concetto di “modernità liquida” sviluppato dal sociologo e filosofo Zygmund Bauman. Si offrono al pubblico alcuni esempi di azioni che ampliano le funzioni dell’architettura in sintonia con le nuove esigenze sociali, fondando l’azione su concetti fino a qualche tempo fa antitetici, ora combinati tra loro: interno/esterno, tradizione/innovazione, individuale/collettivo, virtuale/fisico. La Svizzera è rappresentata alla Biennale da un gruppo di architetti e artisti che producono una riflessione sul significato di confine, inteso non solo come segno tracciato su una mappa, ma territorio da abitare con caratteristiche specifiche. L’intervento conta su riprese video che il team ha realizzato ponendo a confronto le esperienze di abitanti che vivono concretamente tale situazione.

Nel Padiglione Venezia la mostra parte da un assunto significativo, “Vivremo bene insieme se riusciremo a creare armonia tra gli uomini e l’ambiente in cui vivono”; sembra un’affermazione di un’ovvietà disarmante eppure l’armonia sembra essere ancora un obiettivo distante. Il cuore del padiglione è occupato dalle Education Stations (Stazioni di formazione) dell’architetto Michele De Lucchi, una sorta di non-luoghi, generatori di apprendimento in un mondo d’oggi dove non bastano le conoscenze, ma occorre saperle utilizzare. E lì vicino Emilio Casalini in Economia della bellezza crea un itinerario concettuale dai 1600 anni di Venezia fino ad alcune problematiche connesse con la difficoltà di rendere pienamente funzionali i progetti architettonici.

 

Lavori e idee in mostra all’Arsenale

 

All’Arsenale si confrontano in un dialogo serrato (e talvolta bizzarro nelle proposte) occidente e oriente, nord e sud del mondo, in una serie di suggerimenti che non sempre hanno il pregio dell’applicabilità concreta e “viaggiano” sull’onda di una fantasia tesa a disattivare probabilmente le difficoltà di innestare le proposte nella realtà dei singoli paesi. Tra le altre brilla comunque l’Argentina, che con l’opera The Infinite House elegge l’utopia di oggi a punto di passaggio verso la realtà di domani; il mondo è concepito come una “casa infinita” di ogni persona che la abita. Una serie di progetti relativi ad abitazioni collettive vuol catalizzare l’attenzione del visitatore sul “ruolo fondamentale degli spazi comuni in riferimento al nostro modo di interagire e convivere”. A questo proposito un po’ assonante è il progetto cinese, nel quale la parola yuan-er indica il cortile plurifamiliare ed è l’elemento fondante dei tessuti urbani e tradizionali del Paese asiatico. La domanda a cui tentano di dare una risposta è: può lo yuan-er costituire un modello da seguire nel presente e in risposta al tema interrogativo della Biennale?

Gli Emirati Arabi Uniti coniugano visione pragmatica e slancio sperimentale in un risultato di assoluto valore e interesse: la ricerca riguarda un cemento del tutto speciale, ottenuto con acqua salata satura, residuo del processo della desalinizzazione. L’idea, nuova nella contemporaneità, è stata suggerita dai sali cristallizzati e dagli altri minerali trovati negli scavi delle saline negli Emirati.

La Slovenia privilegia l’idea di infrastruttura sociale nella proposta di edifici multifamiliari con uno spazio interno pubblico, ad uso e consumo dei residenti, un’idea che ha la sua matrice nei circoli cooperativi già in funzione dal 1947.

Il padiglione Italia, dislocato alla fine del percorso dell’Arsenale, ha il titolo di Comunità resilienti; è interessante e ricco di sollecitazioni culturali in un tempo come il nostro lacerato da mille interessi contrastanti, che talora inibiscono la possibilità di una convergenza progettuale utile a tutti e non solo ad alcuni. L’obiettivo è il “recupero di una nuova forma di interazione tra spazio urbano e territorio produttivo, all’insegna dell’interdisciplinarietà delle competenze e delle logiche evolutive non deterministiche, elementi centrali nei momenti di transizione.” Il curatore Alessandro Melis è docente all’università di Portsmouth; la sua attitudine a lavorare con biologi, fisici, urbanisti e comunicatori è evidente anche nel labirintico repertorio di opzioni offerte da questo padiglione, bellissimo e stimolante nei suoi contenuti, un po’ compresso e poco fruibile per il difficile rapporto tra la dimensione degli spazi e i materiali esposti. Il criterio di allestimento si fonda su due tematiche parallele che a tratti si incontrano in una sintesi ricca di originalità e di prospettive: da una parte l’analisi del punto a cui siamo con la resilienza urbana in Italia e nel mondo in genere, dall’altra una ricognizione puntuale sul concetto di innovazione e sua applicabilità, su metodologie diverse, su sperimentazioni interdisciplinari in cui intrecciano le rispettive specificità agronomia, architettura, arte, biologia, botanica e medicina. Indubbiamente una congerie fitta di elementi, forse difficilmente “digeribili” con una sola visita all’Arsenale dove, peraltro, da vari punti di vista si notano segni evidenti di un risveglio dalla sospensione dovuta alla pandemia e un forte entusiasmo nella proposta del nuovo. E in questo paradossalmente rientra anche un brano di cultura maori dalla Nuova Zelanda, perentorio anche nel titolo a indicare l’importanza di Imparare dagli alberi. Trasformare la Cultura del Legno.