Artigiani quasi artisti: gran razza d’annata

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Su tanti palazzi tracce residuali e nascoste d’un mestiere fatto di abilità e intelligenza

di Roberto Curci

 

Ho fatto un gioco. O meglio, ho proposto un quiz, un indovinello, a uno che se ne intende o dovrebbe intendersene: un conoscitore di cose d’arte, persona seria, amabile e più che acculturata. Gli ho sottoposto una serie di vecchie fotografie, scattate (da dilettante allo sbaraglio) ai tempi in cui farneticavo di un libro – un altro ?! – dedicato alla città in cui vivo da sempre: precisamente un repertorio di immagini dei “dettagli” architettonici che, volendo, un osservatore può individuare nel tessuto urbano se ha la vocazione del flaneur attento e curioso, nonché – si capisce – un tantino di tempo a disposizione.

Insomma: decine di particolari dei palazzi cittadini, per visualizzare parecchi dei quali occorrerebbe munirsi di apposito drone o, semplicemente, esserne casuali dirimpettai. Se ne stanno spesso lassù, in effetti, questi bizzarri “decori”: mascheroni, telamoni, cariatidi, volti ridenti o ghignanti, talora davvero brutti ceffi, forse con intenti apotropaici, come certi panduri (che invece stanno a pianterreno, in chiave d’arco, come arcigni “guardiani della soglia”). Opere minori, certamente, operine di ignoti lapicidi, comunque – e quasi sempre – artigiani eccellenti al servizio di architetti, costruttori (o proprietari) che non volevano farsi mancare nulla.

E i portoni, poi. Le sinuosità dei legni e dei ferri battuti dei portoni di certi palazzi (soprattutto d’impronta Liberty o secessionista), quelli almeno che hanno resistito al tempo e alle malsane voglie degli inquilini di umiliare un bell’edificio del primo ‘900 con un’entrée dotata del più pacchiano alluminio anodizzato oro.

Nei bei tempi pre-virus ho dunque scherzosamente sottoposto queste foto, a mo’ di test, al dotto amico chiedendogli di “scoprire” da dove ognuna veniva, quale fosse il palazzo o almeno la via o la zona dov’era stata scattata. Beh, ha fatto centro – direi – nel 10-15 per cento dei casi, non di più. In compenso, si è molto sorpreso e incuriosito di certe immagini. “Dimmi, dimmi, questa dove l’hai fatta?”, e via di questo passo.

A che pro questa chiacchiera? Primo, a confermare la mia idea, già in questa sede espressa, che occorra girare col naso all’aria (se e quando la situazione generale lo consentirà). Secondo, che tra le grazie di questa città va annoverato pure quanto, in anni ormai lontani, seppero fare umili scalpellini o falegnami, di cui la storia dell’arte ignora il nome ma che, con mani e occhi ugualmente felici, apportarono alle sontuosità architettoniche un non disprezzabile valore aggiunto.

E ho riflettuto ancora una volta a quanto importante, anzi decisivo, sia stato – dalla metà dell’Ottocento a “prima della prima guerra” – il ruolo di una fucina di ingegni quale la Scuola per Capi d’Arte, “a indirizzo artistico-industriale”, ovvero la Kaiserlich-Koenigliche Staatsgewerbeschule da cui uscirono non solo artisti del pennello o dello scalpello quali – cito alla rinfusa – Croatto, Timmel, Bergagna, Dudovich, Flumiani, Rovan, Meng, Selva, Cernigoj, Pietro Marussig, ma altresì abili e intelligenti operai (sì, operai) che non frequentarono la sezione dedicata alla pittura decorativa, bensì quelle per “l’industria legnaiuola con annessovi laboratorio per falegnami, tornitori ed intagliatori” o per “la scultura ornamentale congiunta ad apposito laboratorio”.

Eccoli qua, dunque, gli autori dei mascheroni che ancora adornano, ad esempio, gli edifici di Viale XX Settembre 58 o di via Foscolo 20, dei telamoni di piazza Goldoni 10 (ma anche del civico 66 del Viale e di Palazzo Modello), delle cariatidi di via Carducci 22, dei puttini di via Valdirivo 22. Eccoli qua, i falegnami e gli intagliatori che diedero lustro, consentendo agli inquilini un decorosissimo ingresso, alle case di viaVecellio 1, via Galilei 24, via Vittoria Colonna 2, piazza Cornelia Romana 3 o via Boccaccio (fortunatissima!) ai numeri 1, 7, 11, 13, 23. Eccetera eccetera.

Certo, non finì qui, con la “redenzione” e le relative riconversioni (anche) scolastiche, la nobile tradizione dell’artigianato locale. Anzi. Sarebbero venute, attive soprattutto negli anni Trenta, al tempo dei transatlantici e spesso al servizio di quel geniale architetto delle navi che fu Gustavo Pulitzer Finali, ditte specializzate di straordinaria caratura. Ancora alla rinfusa citiamo l’”Arte del legno” di Giulio Sbochel-Sbocchelli, la “Bottega del decoratore” di Giuseppe e poi del figlio Emilio Magliaretta, l’azienda di falegnameria artistica di Vittorio Florit e quella di Giovanni Frandoli (fratello dell’ingegnere Vittorio). Ancora: la ditta del pittore-decoratore Giovanni Polvi, quella del tappezziere e decoratore Nino Peritz-Perizzi, e via elencando.

È ben vero che queste eccellenze dell’artigianato artistico, piuttosto che ad adornare gli esterni dei palazzi del loro tempo, si concentrarono sugli interni, e – badando soprattutto a una certa “filosofia dell’arredamento”, in sintonia con quanto usciva dai brillanti cervelli di Pulitzer Finali e di uno Studio d’avanguardia quale lo STUARD – privilegiarono l’attività dedicata a quelle mitiche navi che ancor oggi si rammentano con un certo struggimento: “Neptunia”, “Oceania”, “Conte di Savoia”, “Victoria”.

Nomi leggendari: come quelli di chi le creò e le “vestì”. Quasi un secolo dopo, è facile abbandonarsi a nostalgie o rimpianti. Scomparse le navi, rimangono però le case. Meglio dunque consolarsi guardando in alto, a scorgere – meravigliandosi – i segni superstiti di un amore per il bello e per il ben fatto di cui, francamente, s’è persa traccia. Nel nome della fretta, della standardizzazione e, s’intende, del maggior tornaconto possibile.