AUSTRALIA 1: SYDNEY – DUBBO

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di Pericle Camuffo

 

Bondi beach macchiata di colori e corpi, di muscoli tesi a spezzare il mare, surf incollati ai piedi e mani alte nel sole di palloni da rugby e plastica nei seni gonfi di ragazze in costumi quasi inesistenti. Tutta questa gente si sveglia con la vita tra le mani, la stringe, la fa urlare. Io invece mi sveglio con la vita seduta sul letto che si sta vestendo per andarsene e che mi lascia solo l’incavo caldo nel materasso con cui fare i conti, con cui andare avanti. Solo un ricordo, una fantasia. Mi sveglio stanco, mi sveglio vecchio, sempre a raccogliere la vita che cade a pezzi, in briciole, come un piccolo uccello spaventato.

Devo andarmene da qui. Io sono nato in un’isola dove l’apertura del mare all’orizzonte era una comoda via di fuga. Ce l’abbiamo dentro, noi dell’isola, il fatto di andarcene. Siamo storie di pescatori che si alzano nella notte per il loro giro d’avventura, che tiravano avanti con mani screpolate e ingrossate dal freddo e calzini di lana che escono dagli stivali di plastica. Uomini di sale e di vento, piegati di tristezza, che si consumano nelle sigarette senza filtro e nella noia di rammendare le reti, ma che hanno gli occhi sempre là, a quell’orizzonte che si sfilaccia all’infinito, muto. Ci salivo su quelle barche, quelle dei pescatori, da piccolo, quando andavo a chiedere delle conchiglie da vendere poi al mercato del sabato e che mettevo in fila sopra un lenzuolo colorato. Poi ci sono ritornato, un po’ più cresciuto, ci andavo la notte, con qualche ragazzina tedesca. L’odore del mare mi è rimasto dentro, come sedimentato attorno alle ossa, e la spinta ad attraversarlo, a partire, è qualcosa che è passato attraverso le generazioni e che mi rende inquieto, come i marinai da troppo tempo a terra. Cerco l’imbarco, sempre, perché è laggiù, dove cielo e acqua si incontrano, che ho gettato i miei sogni.

E così, me ne andrò anche questa volta. Lascio tutto, ormai è deciso. Non ne posso più di stare qui. Non ne posso più di Paolo e Anita. È stato comodo, all’inizio. Ero da poco arrivato in città, ed ero già stanco degli ostelli. Non fanno più per me. Sono fuori età. Così mi sono messo a cercare casa. Ho visto l’annuncio sul giornale, cercavano qualcuno a cui affittare un piccolo appartamento ricavato dalla cantina, in una zona residenziale di Padstow, east Sydney. Ho telefonato, fissato l’appuntamento e sono andato lì. Dalle mie prime parole hanno capito che ero italiano. Anche loro erano italiani, di Monfalcone. Trovarmi quasi a casa, parlare in dialetto, osservare appese ai muri le fotografie della loro cittadina, ascoltare storie della Fincantieri e della Casa del Ferroviere, mi rassicurava. Anche il fatto di dover andare ogni sera a cena su da loro, non era male. Poi, però, su quel tavolo apparecchiato alla poveraccia, hanno cominciato a buttare le proprie vite perché io ne tirassi fuori qualcosa, perché le mettessi a posto. Mi usavano come un muro su cui far rimbalzare delle cose che non avevano il coraggio di dirsi in faccia. Le dicevano a me per dirsele tra di loro. Lui era emigrato dall’Italia nei primi anni Cinquanta, abbagliato come tanti dalle promesse di un futuro radioso, the land of apportunities, dove c’era lavoro per tutti, grande richiesta di manodopera, paghe alte e regolari, clima buono e vita facile. E come tanti italiani, si è però ritrovato soffocato nei campi di raccolta di Bonegilla o Greta, in condizioni disperate, a vivere in baracche e bestemmiare chi li aveva ingannati. Lui è finito a tagliare canna da zucchero nel Queensland, divorato dagli insetti e dal caldo. Gli italiani non erano ben visti a quel tempo, specialmente quelli del sud. L’allora ministro dell’Immigrazione Arthur Calwell aveva lanciato lo slogan “Popolare o perire”, ma non aveva spiegato che voleva popolare il suo giovane paese solo con persone accuratamente selezionate dai paesi del nord Europa, continuando quella politica di esclusione razziale che aveva tenuto a battesimo la federazione degli Stati australiani nel 1901.

Ma Paolo aveva tenuto duro, aveva fatto i soldi. Adesso ha tre fabbriche e non se la passa male. Insomma, ce l’aveva fatta e tanto di capello. Ma ciò che era insopportabile era l’infelicità disfatta di lei. Si erano conosciuti ad una festa da ballo in Italia. Lei aveva diciassette anni. Lui, a quella festa, l’aveva appena notata. Poi è partito. Non si sono visti per molto tempo, ma si sono comunque sposati per procura. Poi, quattro anni dopo, è partita anche lei, un viaggio di trenta giorni, da Londra, per raggiungere il suo uomo quasi mai visto e ora marito che era arrivato nel continente della speranza. Ma per lei quella speranza è rimasta un tenue sogno sgretolato in giorni lunghi come le stagioni a sgobbare a casa mentre lui tirava su la sua azienda e scopava la segretaria, e se n’è anche andato con la segretaria, e poi è ritornato e lei l’aveva ripreso perché cosa doveva fare una donna sola in un paese straniero? Gli aveva dato tutto. Era arrivata qui vergine, per poi vedersi trattata come una serva. Non riusciva più a metabolizzare l’amarezza e m’inseguiva per la casa raccontandomi particolari intimi che io non volevo sapere. Ma questo era il prezzo della loro ospitalità, la parte dell’affitto che mi avevano tolto. Comunque, lui la trattava veramente come una serva anche di fronte a me, la zittiva in un modo che mi metteva in un imbarazzo tremendo.

Lascio anche il ristorante dove lavoro. E lascio Millo e la bellezza del nostro incontro. Quando sono entrato nel ristorante, il mio primo giorno di lavoro, erano tutti lì che aspettavano e ho chiesto che cosa stavano aspettando e mi hanno detto che aspettavano Millo. E poi è arrivato, Millo, ed era il Millo che io conoscevo, il Millo della mia isola di sabbia. Ma mi ha stancato presto la sua vita da backpacker a quarant’anni suonati, la faccia cadente di cavallo anestetizzato, i pochi capelli tenuti su con il gel extra strong, i suoi festini di carta pesta e i mille ragazzini con cui riempiva la casa ogni giorno. Lascio Norton street, una sorta di little Italy dove alla fine del tuo turno esci in strada e senti solo dialetti italiani e parli italiano e ti sembra di essere in Italia che già ti girano le palle, perché tu è dall’Italia che sei venuto via e non vuoi ritrovartela davanti ogni notte, sa di presa per il culo. E lascio Sydney, che è cara da far schifo ma bella da perdersi per sempre.

Ieri ho comperato una macchina. Farò una bella corsa verso l’interno, sulle strade senza fine dell’outback, ne ho bisogno.

Stanno girando un servizio fotografico vicino alla spiaggia. La modella si stringe tra le mani i piccoli seni, annoiata e stanca, per mostrare i gioielli di plastica che ha sulle dita ad un pubblico che non conoscerà mai. Occhi come spilli d’argento perforeranno la sua immagine patinata e corretta al computer su riviste di moda. Conosce solo i miei occhi, che la fissano e la seguono come riflettori su di un palcoscenico, mentre si toglie l’asciugamano ed è nuda contro un muro, statua di cera stampata su pellicola, ma non mi eccita la sua nudità, la sento distante. Si è spogliata non per me e neanche per il fotografo, ma per le migliaia di occhi di cui non saprà mai niente. È solo senza vestiti, non nuda. Mi eccitano di più gli occhi verdi e larghi che mi getta in faccia quando ci incrociamo sul piccolo muretto di cemento su cui sono seduto. È molto bassa, vista così da vicino, una ragazza normale, quasi intimorita. Una ragazza mia per un secondo, in un possesso che non lascia neanche il tempo per un’erezione, ed è di nuovo statua di cera, laggiù sulla sabbia, lontana, con il vestito bagnato.

 

Dubbo. Centre Point Motel.

Stanza da 40 dollari, ma va bene così, visto che fa abbastanza freddo e non mi va di dormire in macchina. È la solita squallida e anonima stanza di motel. Anche l’odore è il solito, un misto tra fumo sudore e polvere. Tutto qui, per questa mia notte di solitudine, per questa mia prima notte di fuga.

Ho fatto 400 chilometri di un’Australia quasi inutile, simile ad altri mille posti nel mondo. Dopo il salto oltre le Blue Mountains, solo pecore secche e disperate, piegate sull’erba morta per non impazzire di fame e vacche sorde e lente su di un tappeto di sabbia immobile. La Great Western Hwy ondeggia come un fiume nero in mezzo alla campagna. Il paesaggio cambia leggermente dopo Orange. Si apre e respira il ritmo degli spazi aridi e rossi, annunciati da qualche cacatua che si è spinto troppo lontano.

Quattrocento chilometri di quasi noia, chiedendomi se veramente è in questo modo che voglio scappare, se questo è l’unico modo che conosco, se sia la cosa giusta da fare o se forse avrei fatto meglio a rimanere in città a cercarmi un lavoro e una casa. Solo domande che mi scivolavano dagli occhi e che cadevano per terra, mute, confuse al rumore del motore, mentre correvo verso il tramonto che si schiacciava su questa cittadina, in cerca di un po’ di pace, in cerca di un nuovo inizio.

 

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