Australia 10

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ADELAIDE

Il lago Gairdner, pozza di sale e di niente che sembra uno specchio appannato

quando dico loro che sto andando nella direzione opposta, perdono immediatamente interesse per me e iniziano a parlare tra loro in tedesco

di Pericle Camuffo

 

Ancora avanti. Ancora strada. Dimentico me stesso nel rumore anestetizzante del motore, sono una scatola vuota dentro una scatola vuota dentro una scatola vuota e così via in un gioco da matriosca colorata, che è un inganno, racchiude il nulla. Mi sveglio dopo 250 chilometri di fronte ad un cartello che dice WELCOME TO GLENDAMBO. Elevation: 150 m. POPULATION: Pecore: 22.500. Mosche: 2.000.000 circa. Umani: 30. Mi fermo a mangiare. Non so niente sulla gente e sulle pecore, ma certo il numero delle mosche è dell’ordine giusto. Non si riesce neanche ad aprire la bocca, sono costretto a cucinare in macchina, come ho già fatto altre volte, sistemando il fornelletto dalla parte del passeggero, facendo attenzione a non incendiare tutto. Comunque, la pasta non è venuta poi così malaccio. Nella Mobil Roadhouse, dove ho preso da bere, alla cassa c’è un uomo grasso, basso e sudato, che morirà entro la giornata soffocato dal denso e insopportabile odore di fritto.

La strada costeggia per qualche chilometro il lago Gairdner, pozza di sale e di niente che sembra uno specchio appannato, e dall’altra parte scivola muto un treno lento e senza fine. Questa zona è stata uno dei siti in cui gli inglesi, negli anni Cinquanta, hanno effettuato dei test di armi atomiche, e l’hanno fatto sulla pelle nera degli aborigeni che sono stati avvisati con cartelli scritti solo in inglese. Loro sono rimasti dov’erano senza abbandonare la loro terra, nei pressi di Maralinga e di Emu Junction, dove si sono alzate nuvole non solo di polvere, ma piene di radioattività che si sono sparse nel cielo come nebbia autunnale. Molti sono morti, altri sono rimasti cechi, e gli effetti dei mutamenti genetici dovuti alle radiazioni, persistono ancora oggi. Ma di queste cose è meglio non parlare, voci infamanti, da dimenticare. I governi di allora, ma anche quello recente di Howard, hanno sempre negato qualsiasi effetto nocivo sulla salute sia degli aborigeni che dei militari coinvolti nei test.

Mi fermo alla Spud’s Roadhouse di Pimba. All’interno ci sono targhe di tutti gli stati che tappezzano le pareti, anche targhe americane, e mostrine e medaglie di guerra, al valore, anche medaglie alla madonna. Il soffitto è basso e il lungo bancone di legno dà al tutto una bella atmosfera. Un tipo beve whisky e coca affogato nel ghiaccio e un altro, un po’ più in là, fissa inebetito la cameriera. Alla TV danno un documentario sugli orrori dello stalinismo, in bianco e nero. Fuori, solo sabbia e desolazione che mi accompagneranno fino ad Adelaide.

 

Giorno di sole, giorno di pulizie. Lavo finalmente i vestiti che si erano solidificati chiusi nei sacchetti di plastica nel forno del bagagliaio. Sono pieni di polvere rossa che per un attimo mi riporta laggiù, nel Red Centre. Fare il bucato mi diverte e mi rilassa. Disteso al sole aspettando che la lavatrice finisca, mi sembra un bel modo di vivere, e non capisco perché quando sono a casa, in Italia, cose del genere sono solo una grossa seccatura. Penso che dipenda dal fatto che qui non ho niente da fare, che il sole è piazzato nel cielo azzurro e alto, che posso tranquillamente rigirarmi nell’erba o bermi una birra, fare capriole nudo o gridare nel vento, invece di dover andare a lavorare orari fretta traffico e menate varie.

Nella macchina ho trovato di tutto, anche un paio di calze che non so da quando erano sotto il sedile, pietrificate e un grosso scarafaggio che girava indisturbato nella scatola del cibo.

 

Rundle Mall, Adelaide, South Australia, 4.15 PM.

Odore di lacca per capelli, ragazza che fuma e beve coca cola, “always coca cola” sul vestito bianco. Musica jazz soul swing di quattro ragazzi che sparpagliano cd sull’asfalto a 19.95. Un vecchio raccatta lattine dai bidoni quadrati, svuota e schiaccia alluminio colorato e gocciolante per dare un senso al suo essere per strada, o lo fa solo per mangiare. Quanto vale una lattina? Dieci cento mille lattine, fanno un pasto o un letto? Fanno forse una donna? O fanno solo schifo, ti fanno sentire uno schifo e ti lasciano le mani appiccicose. Tiene le lattine in una borsa di plastica grigia. Si muove veloce, con passetti danzati nella sua melodia interiore. E solitudine. Gambe e scarpe su questa strada shopping area e gente a rincorrere qualcosa, a cercare, sperare, ognuno ha le proprie lattine da schiacciare e il proprio schifo, anche se lo chiude in borse Louis Vitton. Palle giganti, d’acciaio, specchio rotondo che deforma, che inganna, sfere magiche che tutti sfiorano e leccano.

Woolworth’s giallo e verde, tutto in offerta speciale e l’aria assordata da voci di metallo che escono da amplificatori e megafoni, voci di chi offre, dalle porte dei negozi, un elenco di occasioni da non perdere, solo per oggi. Urlano prezzi sconti e finanziamenti.

Donne grasse si tengono per mano e leccano gelati con le tette libere sotto magliette di nulla che ballano storie di sesso raffermo. Un cuoco fuma i pensieri in un libro giallo aspettando che inizi il suo turno di lavoro. Qualcuno mi sorride da panchine vuote e piene e vuote, panchine di legno chiaro, sole che scotta, David Jones, insegne che guardano dall’alto e sputano le loro lettere su teste mobili di mille formiche che scivolano su piste di zucchero filato.

Ragazza bionda e carina, niente male davvero, avvolta da jeans e giubbotto, si tiene stretta per non sparire, con l’eroina appena appena dentro che bussa già al cuore, il sorriso rammollito, qualche brufolo sul mento e un figlio nel cassonetto qui dietro.

Il cuoco fuma ancora i suoi minuti, non smette di leggere.

Rubo mutande bianche da cosce tozze e socchiuse di una giapponese, gonna corta marrone, mangia Kit Kat, sistema borse della spesa e regali e mi eccita.

Un altro vecchio raccoglilattine si trascina sugli stessi bidoni, è silenzioso, triste, di vestiti leggeri e berretto di lana, occhi piegati sull’asfalto e rassegnazione. Sa che non troverà niente o poco, sa dell’altro vecchio raccoglilattine passato prima di lui, questione di tempo, di precedenze, forse di anzianità, ma deve farlo lo stesso, deve frugare per non sentirsi in colpa, per non sentirsi finito, solo uno schifo di vecchio e basta.

Ragazza di colore senza orecchini, senza niente, solo pelle liscia e scura, pelle fatta di buio e notte, cerca il telefono che suona nella borsa ma lo trova troppo tardi, 1 chiamata non risposta.

Ragazzo tardo dark, grasso, cappotto lungo e nero, scarpe da militare con la punta di ferro, guarda per terra e cammina per non cadere, per non mettere la sua faccia nel mondo, cammina sul cavallo a dondolo del suo sogno.

E gambe che vanno sulle gambe e piedi di scarpe arcobaleno.

Ripassa il vecchio raccoglilattine, il secondo, quello veramente vecchio, e sbatte contro la schiena diritta di una ragazza tenuta su con fili di cielo, enormi tette che vibrano rifatte tra la folla. Il vecchio vorrebbe raccoglierle, schiacciarle tra le dita e tremare, un solo brivido, l’ultimo, e che sia finita.

 

È già sera, viene buio abbastanza presto. Si è alzato il solito vento freddo e la cucina è l’unico posto che conserva un po’ di tepore. Sono arrivati due ragazzi. Lui ha capelli lunghi, orecchino al sopracciglio, vestiti luridi e cammina scalzo. Ha lunghi peli sulle dita dei piedi. Lei si muove ciondolando i fianchi stretti nei jeans un po’ abbondanti. Indossa scarpe da ginnastica con la suola molto alta. Gli occhi sono troppo vicini, c’è troppo spazio libero verso le tempie. Zigomi alti, spalle larghe e diritte, busto corto e tette, boh, non lo so, ha un casino di maglie addosso. Non sono un granché da vedere, ma hanno una bella intesa che alimentano con una bottiglia di bourbon. Si amano, ed è divertente spiare i loro occhi aperti e ospitali, fanno quasi tenerezza. Lei, bisogna dirlo, ha un bel culo. Lecca la forchetta con una certa sensualità e soffia sul riso formando con le labbra una specie di cuore, un piccolo sesso socchiuso e umido.

Mangio i soliti pomodori e ascolto due ragazzi svizzeri che sono seduti di fronte. Mi raccontano che sono appena tornati dal Western Australia, dove hanno passato quattro mesi. Non so se le loro storie siano qualcosa che valga la pena ascoltare, ma non ho altro da fare e poi mi sono convinto a rimanere perché ho visto che hanno ancora una bottiglia di vino bianco in frigo. Mi dicono divertiti di quando a Perth gli hanno rubato la macchina, così ne hanno comperato un’altra che poi si è rotta, il motore ha ceduto. Ma intanto la polizia ha ritrovato la prima macchina e sono partiti con quella, che guarda la sfiga si è rotta, e sono arrivati qui in autostop. Sembrano divertiti e anch’io rido, ma penso che questi due ragazzini devono avere un sacco di soldi da buttare via. Stanno cercando un passaggio per Alice. Mi chiedono da che parte vado e quando dico loro che sto andando nella direzione opposta, perdono immediatamente interesse per me e iniziano a parlare tra loro in tedesco.