Australia 13: Kings Cross Car Market, Sydney

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Le macchine vanno e vengono, cambiano mano e padrone e seguono il loro destino e io rimango qui impalato e stupefatto di tutto ciò che mi accade attorno.

Io aspetto, come il vecchio di Hemingway in mezzo al suo mare.

di Pericle Camuffo

 

 

Sydney, Kings Cross car market. Primo giorno nel buco, livello 2, quello blu.

Pesa questo soffitto di cemento, questo cielo basso e grigio con le nuvole al neon che sciacquano via i colori e riempiono la testa di brontolii lontani. Sui parabrezza delle macchine parcheggiate con cura, piccoli pezzi di carta come fossero pubblicità lasciate lì a marcire nei giorni di pioggia.

Sul foglietto appiccicato alla mia Magna lucidata, c’è scritto 2750 dollari. Forse ho esagerato, forse quel numero non è il numero del suo destino. Deve essere così, perché nessuno la guarda. Passano diritti e si fermano dalla stronzetta biondina che si è messa nel posto di fronte al mio. Non ho nessuna voglia di passare troppo tempo qui dentro, anche perché costa 65 dollari a settimana da pagare anticipati. Abbasserò il prezzo.

Le macchine vanno e vengono, cambiano mano e padrone e seguono il loro destino e io rimango qui impalato e stupefatto di tutto ciò che mi accade attorno. La biondina è riuscita a vendere la sua Falcon per 2800 dollari in meno di due ore. Ma almeno si beve, perché chi vende porta giù una cassa di birra e la offre in giro come premio di consolazione, o come presa per il culo, per quelli che sono ancora qui. Falso cameratismo da facciata, perché qui sotto saltano tutte le regole della convivenza civile, del rispetto, si è in preda al devastante morbo del commercio, del mercato, qualsiasi residuo di coscienza ha ormai il colore dei soldi. Ci si guarda con sfida e sospetto anche se ci si sorride e ci si saluta. Si cercano, di nascosto, informazioni sulla macchina del vicino con la scusa di sapere da dove viene, che giro ha fatto e come è andato il viaggio. Appena una macchina nuova entra e gira per trovare parcheggio, tutti vorrebbero vederla in fiamme. Odi il vicino e odi la sua macchina, specialmente se è messa meglio della tua. Ed è così per ognuno che passa, per ognuno che arriva. Siamo tutti dei mostri folli e invasati di denti stretti e di nervi che tremano. Però ci si sorride, ci si augura buona fortuna e ci si dimostra felici se qualcuno vende e tu no. E si beve la birra per mandare giù l’amaro che la rabbia ti lascia sulla lingua.

Continuano ad arrivare Ford Falcon di tutti i colori, e io non posso competere con loro. Sono più grandi, più spaziose, più resistenti, con i loro sei cilindri che tuonano nel blocco di ghisa del motore. Non c’è niente da fare, chiudono il mio orizzonte con le loro sagome allungate, ed io scompaio nel buio, dimenticato e triste.

Un tipo laggiù, dietro il pilone con la bandiera della Svezia, è seduto e conta i soldi che gli hanno appena portato. Ha la faccia tirata dalla felicità e vorrebbe saltare sul cofano e mandarci tutti affanculo che tanto lui è fuori da qui. Invece ci poterà le birre ci saluterà e ci farà gli auguri. Ma io so che vorrebbe mostrarci il culo, e lo sa anche il vecchietto di Manchester vicino a me. È qui da una settimana con la sua macchinina sfigatina e con tutte le sue belle cosine da campeggio esposte in ordine sul tavolo. Anche lui lo vorrebbe morto, ma non ha più la forza né l’età per reagire.

 

Secondo giorno.

Quando sono arrivato, stamattina, ho lasciato il sole fuori e ho preso l’ascensore per questo inferno, mi sono chiesto se veramente ne vale la pena, se io devo stare qui a rovinarmi la vita per 2000 dollari o quel che sarà, e una tristezza cupa mi ha riempito il cuore.

Fa freddo. È pieno di macchine ma non c’è nessuno che vuole comperare. E c’è silenzio, uno strano silenzio. Tutti sembrano qui per caso e mangiano e leggono e fumano e scrivono e dormono, ma appena si sente il rumore delle porte dell’ascensore, tutti scattano sull’attenti, si mettono a posto i capelli e i vestiti, le ragazze mettono in vista tette e culi e i ragazzi arrotolano le magliette sulle braccia. Ma per ora solo falsi allarmi, ad entrare erano sempre altri venditori.

Ancora nessuno. Ancora calma. Cominciamo tutti ad essere nervosi, è da troppo tempo che non succede niente. Per passare i minuti scambio gli occhi con la ragazza di fronte che non è niente di speciale, era meglio la biondina di ieri, ma è l’unica distrazione.

Il vecchietto di Manchester ha appena venduto per 1300 dollari. Gli israeliani, come sempre, fanno gruppo chiuso in fondo al parcheggio. È pieno di israeliani. Uno di loro mi ha spiegato che dopo il servizio militare obbligatorio per uomini e donne, che dura tre anni, quasi tutti si prendono un anno di libertà e girano il mondo, prima di tornare a casa e massacrarsi di lavoro. Fanno casino, giocano a pallone, ridacchiano e hanno un po’ la puzza sotto il naso. Ti guardano dall’alto in basso e ti ridono in faccia, e viene quasi la voglia di tirargli qualche pietra e improvvisare una microintifada australiana.

Io me ne sto in disparte, per i fatti miei, e fino a poco fa avevo almeno il vecchietto per dividere questa emarginazione. Ora sono rimasto solo circondato da ventenni. Butto giù qualche birra che mi dà il torpore necessario per affrontare il mio panino al formaggio, che mi viene da vomitare solo a guardarlo, ma andrà giù, lo so, come questa giornata, come questo posto.

I muri sono coperti da scritte che sono pezzi di storia di chi è stato qui dentro prima di me. Confessioni e speranze e disperazioni, nomi di città e paesi e mondi, e cifre, un sacco di cifre, di solito sono il prezzo pagato e i soldi ricavati con la vendita. Quasi tutti hanno perso un bel po’. Poi ci sono le quick sale, quelli che hanno venduto in mezz’ora o anche meno, che penso siano tutte cose inventate, e poi la disperazione di chi ha venduto in 15, 20 giorni, e un consiglio che spicca sul resto: “Prendi i soldi della prima offerta che ti fanno e porta il tuo culo fuori da qui”. Io non ho avuto ancora nessuna offerta, ma terrò presente questo consiglio.

Arrivano birre. Qualcuno ha venduto dall’altra parte del parcheggio. C’è sempre qualcuno che vende, qualcuno che se ne va, qualcuno che non sono io.

Oggi è giovedì. Free barbecue per tutti offerto dai tiranni che gestiscono questo posto. Ma io non approfitterò delle cose marce e scadute che buttano sulla griglia. Andrò a farmi un giro in Darlinhurst road tra puttane, tossici e papponi che ti chiamano con un cenno della testa e ti invitano a scendere in un inferno fatto di velluti e di luci fioche e puzza di fumo. Camminerò un po’ tra alcolizzati con la testa tra le mani e soffocati dal sonno e macchine della polizia che scivolano lente contando i morti e i vivi. Andrò a vedere se vicino al Mc Donald’s c’è ancora Burnie, the Kings Cross poet, che vende versi per pochi spiccioli.

 

Terzo giorno.

C’è un aborigeno che gira qui sotto da un paio di giorni. È simpatico, e vuole scambiare didgeridoo con le macchine. Viene lì è ti dice “Hei amico, ti do 5 didgj per la tua macchina, poi li porti a casa, al tuo paese e li puoi vendere per 300 o 400 dollari l’uno, sono fatti a mano da me, vado io nel bush a scegliere l’eucalipto da tagliare, non sono fregature per turisti”.

Per dir la verità è anche convincente e poi io impazzisco per quel tubo di legno, il suo suono mi scaraventa in dimensioni ancestrali e lunghe piste di sabbia. Ho pensato più volte di accettare lo scambio. E poi sono belli da vedere, ben curati e per niente souvenir d’Australia. Ma alla fine, anche ammesso che li porti a casa, che alla dogana non mi facciano storie, a chi mai dovrei venderli? Non conosco nessuno disposto a pagare 150 o 200 euro. Per cui continuo a tenere duro senza abbassare il prezzo della mia Magna.

Il circo si è messo in moto già da un po’. Ognuno è impegnato nel proprio numero sulla pista di cemento di questo parcheggio. Io invece sono sempre seduto qui, immobile. Non sono mai stato un uomo di spettacolo, e uscirò sconfitto da questo carnevale.

Richi è sempre lì che sistema con cura le cartine stradali sul cofano della sua Falcon rossa, che tiene bella lucida. Fa ogni giorno le stesse cose. Guarda in giro protetto dall’ombra della barba folta e dal pink slip, il foglio rosa che è testimonianza e garanzia che la macchina è a posto, che ha passato l’ispezione che devi fare per poter accedere a questo buco fetido. Ognuno deve andare da un meccanico e farsi fare questa benedetta ispezione dove danno un’occhiata sommaria alla carrozzeria, controllano luci freni gomme e se il motore cade a pezzi o si regge insieme e poi ti consegnano il verdetto che di solito è un foglio bianco con elencate in evidenti X le rogne della macchina. Ma se è tutto a posto ti danno il pink slip. Succede raramente, ma quando accade, chi ha l’onore di tale riconoscimento diventa una persona da ammirare e, sotto sotto, da temere.

Io l’ispezione non l’ho passata, come tutti qui dentro. Lui è l’unico, il nobile in mezzo al popolino che puzza di merda di maiale. Però al caro Richi fino ad ora il suo foglietto rosa non ha portato fortuna perché chiede 3500 dollari e la gente che passa qui sotto per comperare, tutti quei soldi non li vuole spendere. L’ha messo bene in vista, accanto al cartello del prezzo sul parabrezza. Lo guarda con soddisfazione, e mi fa tenerezza con la sua faccia germanica e la maglietta con su scritto “Richi goes to Australia. Have a good time” e sotto le firme degli amici.

Io aspetto, come il vecchio di Hemingway in mezzo al suo mare. Aspetto che la lenza si tenda e che diventi pesante e si scuota e il pesce resti appeso all’amo che penzola nel nulla di acqua e luce.

 

Sesto giorno.

Stamattina non avevo voglia di stare a marcire qui sotto. Il cielo di Sydney era di un azzurro troppo chiaro per la città, come se qualcuno si fosse confuso e l’avesse scambiato con quello dell’outback, L’aria era frizzante di energia e di ossigeno e Durlinghast road sembrava pulita, anche le puttane sembravano più pulite, sane, e Burnie, il poeta, non c’era. Così ho sistemato il cartello del prezzo sul parabrezza e sono uscito.

Quando sono rientrato ad ingiallirmi la pelle e i polmoni, ho trovato due ragazzi seduti sulla panca di fronte alla mia macchina. Hanno chiesto se era mia. Ho detto sì. Hanno chiesto se potevano provarla. Ho detto di sì.

Durante il giro il motore ha tossicchiato e balbettato un po’, come sempre. Speravo non lo facesse. Me la sono cavata dicendo che fa così perché è freddo e perché, visto che ha il cambio automatico, ad ogni marcia che sale o che scende sussulta un po’. Sembravano essere d’accordo. Siamo ritornati di sotto ed è cominciata la contrattazione, non lunga per la verità. Ci siamo accordati per 2300 dollari. Affare fatto. Stretta di mano e soldi sul tavolo.

E mentre uno di loro tirava fuori i soldi dal portafogli, vedevo l’esitazione dei suoi gesti lenti, perché 2300 dollari sono sempre un bel po’ di soldi. Gli tremavano le dita mentre li contava, mentre faceva scorrere le banconote sui polpastrelli sudati e ad ogni pezzo da 50 che metteva sul tavolo, si chiedeva se stesse o meno facendo la cosa giusta. Conoscevo quell’ansia, quella da fregatura, quella di quando sai che ti stai rovinando con le tue stesse mani ma hai una minima speranza che questo non accada, come quando i soldi li appoggi sul tavolo da gioco. E io pensavo a come se li era guadagnati quei soldi, a come si era rotto le palle per non mollare, perché voleva questo viaggio, lo voleva fino in fondo e adesso li stava mettendo nelle mani di uno sconosciuto.

E mentre passeggio nell’aria fresca e sotto il cielo azzurro di Kings Cross, so che nei prossimi giorni maledirà me e tutti i miei parenti augurandoci morti lente e piene di sofferenza quando capirà che il balbettio del motore non c’entra niente con il cambio automatico né con il motore freddo, ma fa così perché ha sempre fatto così. Si sentirà fregato. Poi capirà, come ho capito io, che la macchina dopo i primi cinque minuti va via liscia e si dimenticherà di me.