AUSTRALIA 7: WEST MACDONNELL RANGES

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di Pericle Camuffo

 

 

I Ranges sono una discesa a picco nel tempo dell’intero pianeta, strisce di roccia rossa che corrono per 400 chilometri da est a ovest a ridosso del Tropico del Capricorno, una specie di barriera naturale in mezzo al nulla, ma non dividono niente, non separano. Sono semplicemente qui da un tempo immemorabile. Sono le formazioni geologiche più antiche della Terra e avevano la maestosità dell’Himalaya prima che vento e pioggia le riducessero a qualcosa non più alto delle colline, anche se, a ricordo di tale dimenticata maestosità, il monte Zeil allunga le braccia fino a 1531 metri d’altezza. Fiumi antichi hanno lasciato le loro impronte sulla roccia esausta, ferite profonde, tagli netti, perpendicolari, e sul fondo di alcune di queste gole scorre ancora dell’acqua, ed io è lì che sto andando, per bere il sangue della terra dalla sua vena più sacra. I MacDonnell, per gli aborigeni dell’Australia Centrale, sono la traccia lasciata dal Serpente Arcobaleno che nella sua corsa sotto la superficie terrestre, ha alzato al cielo queste rocce rosse piene di sangue, ancora vive.

Ma tutto ciò che di sacro e di viscerale ancora conservano, viene spazzato via dal casino di gente che sguazza nella Big Hole di Ellery Creek, una pozza gelata lasciata dal fiume. Non c’è parcheggio, non c’è ombra, non c’è aria, solo facce paonazze che tolgono la magia ad ogni centimetro di sabbia e di acqua e di roccia. Me ne vado con lo spettro dei festanti pendolari del fine settimana accampati in ogni buco, in ogni fenditura, in ogni stagno da qui a Glen Helen.

Serpentine Gorge è una fonte battesimale chiusa tra sponde di roccia che la proteggono dal sole. È una meraviglia inaspettata. Ho gli occhi pieni di vento caldo e secchi dopo aver camminato sulla terra arsa e pietre e alberi che stanno per esplodere, ma finalmente sono da solo. Il chilometro che la separa dalla strada è un ottimo deterrente per i festanti rompipalle e resto quasi senza respiro di fronte a questa pozzanghera di acqua putrida e verde.

Il silenzio succhia via l’aria dalla bocca. Un silenzio fatto di mille piccoli ronzii e battiti di minuscole ali vibranti, e fruscio di alberi mossi dal vento. Rimango ancora un po’ seduto sulle rocce e mi tolgo le scarpe e le calze e sento la terra con le dita dei piedi. Calpesto le rocce che hanno visto l’inizio del tempo in modo che la loro energia mi attraversi facendomi brillare come una stella mentre apro le braccia al cielo offuscato dal caldo.

Glen Helen Homestead. Punto di ristoro e di ritrovo da dove partono i tour organizzati in grossi autobus 4WD colorati di serpenti e coccodrilli. C’è un gruppo di ragazze tedesche venute dalla Baviera fin qui a dire cazzate e a giocare a biliardo. Mi sfidano. Pagano tavolo e birre che ruotano più veloci delle palline colorate. Io gioco e bevo e vinco. Vogliono sapere da dove vengo cosa faccio dove vado e perché, i tedeschi sono gente precisa. Rispondo seccamente a qualche domanda, e saluto l’Australia on tour vagando nell’atmosfera del pub che si sta facendo accogliente, lievemente eccitante.

Si abbassano le luci e inizia lo spettacolo. Era da un po’ che stavano riempiendo la zona in fondo alla stanza con microfoni e casse. Un tipo che sembra Lino Toffolo inizia a cantare ballate country australiane che nessuno conosce ma che tutti cantano seguendo un testo tutto inventato. E fuori il vento e il buio e gente nel prato sigillata nei sacchi a pelo tutti uguali e tutti in fila nella dormita organizzata secondo il foglio del programma che hanno ricevuto sul bus alla partenza della loro avventura. Piscio sulle loro teste, quasi, e me ne vado nella zona buia dove ho sistemato la macchina.

Mi chiudo dentro con l’ultima birra da finire. Le alte pareti di roccia sono uno schermo più nero del buio, si vedono anche se è notte, risaltano con la loro fierezza, hanno una tonalità diversa, più densa, e il vento oscilla alberi stanchi mentre laggiù un enorme bush fire illumina l’orizzonte in un tramonto artificiale che non ha fine, magia di scintille e odore di legno bruciato.

 

Le rocce tagliate dal lavoro millenario del Finke river, mostrano tutti gli anni che hanno, sono rugose come la faccia di un vecchio. Sulla loro pelle c’è tutta la storia che hanno sopportato, sono la mappa dell’intera loro esistenza, e si vedono i solchi più decisi scavati dalle lacrime e dalla tristezza di sentirsi erodere piano piano dalle acque del fiume, di sentirsi violare. C’è sofferenza in queste rocce, che fa l’aria pesante e che ti affatica mentre ci cammini vicino, mentre tenti di stare in equilibrio sulla ghiaia multicolore del letto del fiume che non c’è, che ha lasciato a testimoniare della propria presenza solo delle enormi pozzanghere verdastre che tremano al leggero vento del mattino, anche se cento milioni di anni fa era un corso d’acqua immenso, largo come il Congo e immerso in una foresta tropicale. Si avverte l’energia della lotta continua fa acqua e terra, del loro contrasto e del loro amore, perché l’uno non può esserci senza l’altra. Questo fiume e questa terra si sono incontrati milioni di anni fa e hanno cominciato la loro storia, la loro vita insieme, e non si sono separati mai.

Vado a fare colazione e il Mereenie tour pass, un permesso che mi consente di attraversare le terre aborigene da qui a Kings Canyon, anche se non sono sicuro di arrivare fino laggiù.

Da qui iniziano le piste di sabbia. È come varcare un confine, finisce qualcosa e ne inizia un’altra. Gli occhi si socchiudono, la presa sul volante diventa più decisa, piedi ben saldi sui pedali. È quello che voglio, quello per cui ho speso una barca di soldi per questa macchina. Ho messo la trazione integrale, anche se non è proprio necessaria, ma mi fa sentire più all’interno di questo mio viaggio.

La macchina va bene, rimane piantata a terra, e comincio a sentirla vibrare tra le mani, la sento rispondere a ogni mia sollecitazione. Davanti agli occhi, solo una lingua rossa che sembra sparire all’interno della bocca enorme e spalancata che è l’outback australiano, che inghiotte tutto, che ti risucchia.

Risalendo una piccola stradina che si impenna parecchio, con i rami che grattano sul tetto e le ruote che affondano, arrivo al Tyler Pass. Da lassù si ha una magnifica vista del Gosse Bluff, il cratere che ha lasciato una cometa circa 130 milioni di anni fa e ormai solo anello di pietra rugosa e monti bassi e terra che ha ricevuto il dono ghiacciato del cosmo pieno di vita e acqua in un’esplosione di gioia e nuvole. E adesso, di tutto quel frastuono è rimasto solo il silenzio della fine, di quando il fumo si posa e la terra smette di tremare, un silenzio enorme, tale e quale al botto che l’ha generato, della stessa forza e intensità, come se la terra si fosse rannicchiata e fosse rimasta zitta per non sentire il dolore, per fare in modo che tutto passasse velocemente. Quel silenzio è rimasto qui. Dalla terra è passato agli alberi e all’erba. È passato in ogni cosa, è stato assorbito. Qui tutto è intriso di silenzio, di quella contrazione antica che la terra ha fatto per difendersi da chi l’ha violata così in fretta.

Scendo, e vado verso quell’anello muto, ci vado dentro. C’è una strana energia al suo interno, c’è ancora più silenzio, è come se l’impatto avesse lasciato una zona di vuoto, avesse tolto a ogni cosa il suono, la presenza. Si avverte qualcosa che ha a che fare con il sacro, con una dimensione che non è dell’uomo. Per gli aborigeni della zona questo cratere, Tnorala, è il grande piatto in cui mangiavano gli Antenati ancestrali scesi dal cielo durante il Dreamtime. E loro, gli aborigeni, vengono qui a nutrirsi dell’energia che tiene vivo questo anello di roccia, e ringraziano. Dovrei farlo anch’io, ringraziare e uscire senza disturbare, come si esce da una chiesa, con un piccolo inchino.

 

 

Ndappa è il nome aborigeno di questo luogo. Prima che venisse trasformato in area da campeggio, c’era solo terra, e prima dei turisti e dei bianchi, su questa terra c’erano solo loro, gli aborigeni.

Di tutta la sacralità del luogo non è rimasto che il cartello che lo ricorda, poche righe per l’uomo bianco, perché l’uomo bianco non ha storia, “white man got no dreaming”, ha scritto William Stanner, è cosa nuova e destinata a durare poco, non ha ricordi, non ha leggende, ruba e uccide e occupa le leggende degli altri popoli senza capirle, senza esserne parte, e le chiude in riserve o in ghetti per non sentirle urlare, per non doverle affrontare fino in fondo. L’uomo bianco tappa la bocca alle leggende con il piombo delle pallottole e il ferro delle catene e malattie e alcol e rabbia. L’uomo bianco mette steccati e filo spinato, divide, separa, allontana, e si perde. Inevitabilmente si allontana dalle proprie origini, dalla terra e dal cielo, per scendere all’inferno. E allora bastano poche righe per raccontare un mito all’uomo bianco, il resto sarebbe solo tempo sprecato, e gli aborigeni non hanno mai sprecato niente, per questo sono sopravissuti. Ma hanno dovuto andarsene anche da qui, calpestare la propria identità e la propria terra, fino a non riconoscerle più.

Il sole scende tra le montagne piatte e rosse, lasciando nell’aria un senso di sottrazione. Trascina la tua coscienza laggiù, oltre il deserto. Scendi con lui, piano piano, a morire nella sabbia per rinascere luminoso dall’altra parte del mondo, nuovo e pulito. Forse è proprio questo che vorrebbero da noi gli aborigeni. È questo il viaggio che ci suggeriscono di fare. Seguire il sole e bruciare per poter rinascere. E allora sì che spenderebbero ben più di quelle quattro righe per raccontarci il loro mondo, per insegnarci miti e leggende, per istruirci al rispetto della terra, perché sarebbero sicuri che all’interno della nostra anima ci sarebbe rimasto uno spazio vuoto disposto all’ascolto, alla comprensione, alla crescita.