Come l’Italia perse Pola

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La storia di un Paese sconfitto che cercava faticosamente di ritrovare un decoro a partire dall’ inevitabile accettazione della realtà: essere stati gli alleati velleitari e opportunisti di Hitler

di Francesco Carbone

 

«…un’epoca, in cui la forza tutta da una parte,

e la debolezza tutta dall’altra rendevano l

’ingiustizia la cos più facile e più naturale.»

Alessandro Manzoni, Discorso sulla storia longobardica)

 

Sulla storia tragica di Pola negli anni tra la fine della seconda guerra mondiale e il dopoguerra, Pola città perduta. L’agonia, l’esodo (1945-47) di Roberto Spazzali (Edizioni Ares, 2022) può essere considerato il libro definitivo. È un saggio molto accurato, basato sullo studio di una documentazione che non si potrebbe desiderare migliore, allo stesso tempo col dono di una fluidità di scrittura che lo rende perfettamente accessibile anche a un lettore non specialistico.

Pola che affronta gli anni di guerra, ci racconta Spazzali, viene da una storia che ne ha definito il carattere: voluta da Venezia, «assolutamente inespugnabile per mare e ben protetta da terra», quando divenne austriaca fu scelta per essere «la più modera base della K. u. K Kriegsmarine»: il numero degli abitanti, dalle poche centinaia della prima metà dell’Ottocento, arrivò a oltre cinquantottomila nel primo decennio del Novecento. Durante la Grande Guerra, gli americani sperimentarono su Pola i primi bombardamenti sistematici su un centro urbano; D’Annunzio la trasvolò «lasciando cadere dei cocci di vetro di Murano e il messaggio Bis pereo (muoio due volte)».

Quando Pola divenne italiana, si trovò amministrata da uno Stato che non conosceva abbastanza né Pola né in generale l’Istria. Rispetto agli ultimi anni dell’amministrazione austriaca, nei primi anni del dopoguerra, i cattivi rapporti tra italiani e slavi peggiorarono ulteriormente, e dopo la marcia su Roma del 1922, benché la parte slava della popolazione «non aveva manifestato alcun atteggiamento di ostilità verso l’amministrazione italiana e tanto meno nei riguardi del primo governo Mussolini […] la questione slava era una vera ossessione per i funzionari statali italiani».

Fu dunque il fascismo a radicalizzare la situazione, imponendo «l’italianizzazione coercitiva», la chiusura delle scuole non di lingua italiana e in generale l’azzeramento della vita economica e sociale autonoma. Questo in un’Istria in cui il 54,1 % della popolazione era slava. In questo quadro, Pola, città di circa 41.000 abitanti, restava largamente italiana.

«Dopo l’aggressione alla Jugoslavia del 6 aprile 1941», scrive sempre Spazzali, Pola divenne il centro di «accantonamento per le truppe destinate prima al fronte greco-albanese e poi balcanico». Allo stesso tempo, la presenza di formazioni partigiane slovene e croate si fece sempre più fitta e la repressione italiana arrivò a ricorrere a «metodi brutali e risolutivi tali da provocare pure le proteste delle autorità ecclesiastiche». Dopo l’8 settembre 1943, «con l’arrivo delle truppe tedesche la situazione precipitò».

Pola rientrava nei territori amministrati direttamente dai tedeschi: l’Operationszone Adriatisches Küstenland (Ozak – Zona d’operazioni litorale adriatico) che comprendeva le province di Udine, Gorizia, Lubiana, Trieste, Pola e Fiume. Nell’agosto del 1944, con la realizzazione sulla costa e sui rilievi interni di «sbarramenti e trincee nell’eventualità di uno sbarco alleato». Le fortificazioni furono realizzate con il nuovo servizio obbligatorio del lavoro. Pola diventò così il centro della Festung Pola: la Fortezza Pola, che comprendeva tutto il territorio circostante. In quell’estate del ’44, per i maschi polesi nati tra il 1916 e il 1926, s’impose la scelta tra la resistenza partigiana e l’accettazione di sottomettersi ai tedeschi come forza lavoro obbligata; e questa per la gran parte fu dettata da motivi quasi «esclusivamente di sopravvivenza».

Siamo all’agonia. Il 5 maggio 1945 le truppe jugoslave presero possesso della città: «iniziava la caccia al fascista, ma tra gli arrestati erano finiti anche innocui patrioti». Con l’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945, per i due anni seguenti, Pola visse «nelle medesime condizioni riconosciute più tardi ai settori occidentali di Berlino, circondati e assediati, che potevano essere alimentati solo con un ponte aereo». Per Pola, le vie aperte erano quelle marine con Trieste e la strada costiera che attraversava tutta la Zona B.

Nell’Italia sconfitta, Trieste e Pola diventarono «i due principali fulcri della battaglia per l’italianità»: con una netta preferenza, da parte delle autorità italiane, per Trieste.

La prima arma degli jugoslavi per fiaccare Pola fu la fame. Il suo isolamento e le carenze igieniche provocarono anche un’epidemia, probabilmente di tifo. Una resistenza importante all’occupazione da parte dell’esercito jugoslavo fu praticata dal clero – sia italiano che sloveno e croato – che per questo subì intimidazioni e violenze.

Era difficilissimo essere italiani in queste terre in cui italiano era diventato «sinonimo di fascismo». Già nel luglio del 1946, ventimila polesi avevano chiesto di lasciare la città se questa fosse stata lasciata agli jugoslavi. Scrive Spazzali che «quella lista aveva assunto il significato di un plebiscito per l’italianità», prendendo però così alla sprovvista il governo italiano che sperava di «trattenere il maggior numero di italiani nei territori istriani, indipendentemente dall’esito della Conferenza di pace».

A Pola si costituì il Comitato assistenza per l’esodo il quale, a differenza degli altri che si erano formati in Italia, operò nel territorio in cui organizzava tutte le operazioni necessarie per fare in modo che l’esodo venisse portato a termine nel modo migliore possibile. Trieste diventò la «capitale morale e culturale di un’Istria che non si poteva esprimere liberamente». Dei trentacinquemila italiani di Pola, trentamila erano pronti a partire: fu appunto un esodo, parola biblica ormai «dominante sulla stampa italiana».

Quanto si è finora delineato non è che lo scheletro, il quadro generale della prima parte della narrazione di Spazzali, che segue invece tutti i fili di una storia corale e intricata. La sua narrazione – quando giunge ai momenti più critici – trascolora in cronaca, anche del giorno per giorno, per poi riallargarsi nell’affresco indispensabile del contesto storico europeo, che in gran parte la storia di Pola ha determinato.

Al centro del saggio c’è la vicenda della strage della spiaggia di Vergarolla del 18 agosto 1946, climax tragico di «una strategia della tensione» che da tempo – facilitata dalla grande quantità di esplosivo e di materiale bellico abbandonato dagli eserciti – non era difficile attuare. Qui il racconto di Spazzali si fa stringente, con un rallenty che ci fa rivivere, quasi fossimo presenti, quel giorno: il 16 agosto si disputano i campionati istriani di nuoto e di altre discipline natatorie: «Alle 14.15, in un momento di pausa delle gare, ben ventotto tra mine, testate di siluro e vari residuati già disattivati scoppiano improvvisamente. Quattrocento chili di tritolo. Si contano 65 morti di cui 59 identificati». La strage ottenne il suo scopo: «annichilire la popolazione in un momento di illusoria serenità». La reazione dei partiti e dei sindacati italiani fu appena «simbolica»: uno sciopero di dieci minuti senza corteo, senza nessuna reazione pubblica: solo «annichilimento e rassegnazione». Anche i britannici del GMA (Governo Militare Alleato) vollero chiudere subito il caso con un indennizzo alle famiglie.

Quasi tutti i polesi italiani si convinsero definitivamente che non restava che andar via il prima possibile.

Comincia qui la seconda parte di Pola perduta, quella in cui Spazzali racconta le difficoltà innumerevoli dell’esodo. Alla fine partirono circa ventisettemila persone. È una storia che ci viene raccontata viaggio per viaggio – prima di masserizie e poi di famiglie –, nel quadro di un’«Italia madre e matrigna», nella sostanziale indifferenza degli alleati, mentre gli jugoslavi cercavano al più presto – con l’occupazione delle case lasciate dagli italiani – di definire una situazione di fatto che non potesse più essere modificata.

Pola perduta ci fa pensare a uno di quei quadri pieni di personaggi minuti di Bruegel. È fittissimo di storie che la “grande storia” di solito non racconta: centinaia di vite immerse in qualcosa di ben più grande, spesso inafferrabile, che è stata la storia di un Paese sconfitto che cercava faticosamente di ritrovare un decoro a partire dall’ inevitabile accettazione della realtà: essere stati gli alleati velleitari e opportunisti di Hitler.

Spesso leggiamo così storie di persone in cui la differenza tra la tragedia e la salvezza è stata determinata semplicemente da altre persone, dalla loro abnegazione, dal loro individuale senso morale. Nel continuo passaggio dall’evolversi del quadro generale di quegli anni alle vicende anche minime degli abitanti di Pola, Spazzali ci dona un esercizio di acribia e di pietà.

 

 

Roberto Spazzali

Pola città perduta

L’agonia, l’esodo (1945-47)

Edizioni Ares, 2022

  1. 590, euro 30,00