IL POPULISTA ISTITUZIONALE

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Un’analisi del renzismo da parte di Marco Revelli

di Fulvio Senardi

 

Uscito nell’autunno del 2015 e trascurato in sede di dibattiti pubblici, i grandi shows che ormai tendono a svolgersi in forme servili e agiografiche, oppure, altrettanto inutili, come combattimento di galli, Dentro e contro di Marco Revelli è un denso e durissimo pamphlet contro il renzismo. Per Revelli, cattedra all’Università del Piemonte orientale, ricchissima bibliografia da intellettuale impegnato sul fronte del pensiero politico alternativo, Renzi è, insieme, un «funambolo» e un «illusionista». Titolare di un progetto di «democrazia esecutoria» (p. 125) che, del tutto consapevolmente, mira alla «manomissione del nostro aspetto istituzionale e democratico» (p. 106), tanto su mandato ufficiale (la famosa lettera del 4 agosto 2011 inviata dal Consiglio direttivo della Bce al governo italiano) quanto per effetto di una sindrome – l’arguta definizione è dell’Autore – di «trojka interiorizzata» (p. 77), l’attuale Presidente del consiglio ha la capacità, da vero «populista istituzionale», di «convertire la disperazione di massa in speranza tramite l’espediente dell’illusione, mutuando linguaggi ribellistici dentro un progetto di fatto reazionario» (p. 83). Perfettamente coerente con «la natura del dispositivo europeo come grande macchina imperiale destinata a prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro e nelle periferie, in particolare, dell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali finanziari) e al centro (i cosiddetti paesi forti), secondo un meccanismo destinato ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità» (p. 79).

Quindi, mettendo in opera le sue competenze di docente di Scienza della politica, Revelli entra nel cuore del progetto renziano, sintetizzandone la strategia, in termini diremo di filosofia della politica: «verticalizzazione e personalizzazione del potere nelle mani della figura apicale dell’esecutivo» (p. 89), «neutralizza[zione del] possibile impatto del principio di rappresentanza sull’azione del governo» (p. 88), emarginazione dei cosiddetti «corpi intermedi», in special modo i sindacati. Per chiarirlo poi ulteriormente, in termini invece di ingegneria istituzionale e proceduralità: controllo pieno di un Parlamento di nominati (scelta dei capilista più premio di maggioranza), possibile anche grazie allo svuotamento di funzioni del Senato, e con un’opposizione ridotta entro minimi spazi (quelli concessi dal partito al potere) e tacitata grazie a pratiche quali il “canguro” (gli emendamenti ridotti a un solo articolo) o la “gigliottina” (passaggio diretto al voto bloccando la discussione), con la conseguenza di poter legiferare a colpi di fiducia, una Corte costituzionale e un Presidente della repubblica “addomesticati” avendo nel Partito (anzi, nell’uomo) che domina il Parlamento i loro “grandi elettori”. Insomma tutta l’Italia istituzionale come claque del grande esibizionista. Sono temi importanti, sui quali Revelli non ha però bisogno di diffondersi troppo, avendoli ampiamente chiariti “gufi” ricchi di acume quali Zagrebelski o Rodotà. Se questa è la parte polemica del pamphlet, una batteria di osservazioni e interpretazioni difficili da contestare, fragile appare invece la pars construens, cui è deputato l’ultimo capitolo, Le sfide nello spazio europeo. L’eroe di questa sezione è Alexis Tsipras, «uno di quelli che osano» (p. 112), di cui Revelli ignora però, in un libro scritto verosimilmente nella primavera-estate del 2015, la resa quasi incondizionata nell’autunno 2015 alle richieste dell’”Europa” (fra virgolette, perché ci riferiamo ai poteri forti e alla cuspide tecnocratica del neo-liberismo continentale, e non alla rappresentanza democratica dei popoli europei, quel costoso Parlamento sempre in viaggio fra le sue tre sedi che intanto legifera sulla capienza delle bottiglie e la stagionatura dei formaggi, su proposta della Commissione naturalmente, quell’organo di vertice che non è eletto direttamente dai cittadini). Nel velleitario puntare i piedi del giovane eroe ateniese Revelli legge insieme Termopili e Salamina, una riuscita resistenza contro lo strapotere di spietate forze di invasione e «quella breccia [dove] potrebbero infilarsi i popoli e i paesi che di quello stesso dogma penitenziale e di quella stessa austerità sono al medesimo modo vittime» (p. 113). Ora, concediamo pure che non è miope, da parte di Revelli, l’«idea di un continentale piano del lavoro finanziato con una finalità federale» (p. 121), né tantomeno il richiamo, diciamo anti-merkeliano, alla Conferenza di Londra del 1953 che condonò parte del debito tedesco. Ma tutt’altra cosa è voler individuare un modello per l’Europa di domani nella corrottta e spendacciona democrazia greca, di un Paese cioè che accede all’Euro truccando i conti (con un occhio di avidità opportunista, come tutti gli ultimi arrivati di economia ultra-fragile, ai benefici che se ne potranno trarre), e che contende all’Italia tanto il record europeo dell’evasione fiscale quanto quello dell’abusivismo edilizio (ma noi li battiamo nel Guinness della malavita organizzata!). Impossibile non chiedersi perché il contribuente tedesco, olandese o finlandese debba finanziare il deficit di un Paese del genere (o dell’Italia, con i politici e alti burocrati più pagati d’Europa, con tutto il mostruoso “indotto” che questo implica: i 15 giudici costituzionali, i 1000 parlamentari, i 1200 consiglieri regionali, categorie con prospettiva di vitalizio, i 3500 presidenti di fondazioni, la schiera innumerevole di presidenti di partecipate, enti portuali, aeroportuali, ecc., la pletora di dirigenti di stato, – ricordava il giornalista Stella del Corsera, a proposito dei 300 di Palazzo Chigi, forse non giovani, ma forti quanto a potere di acquisto, che hanno più soldi in busta paga di Obama). Già, l’Italia. Altra bella illusione di Revelli (ma come criticarlo perchè ama coltivare la più corroborante delle virtù, la speranza?). Ci coglie un empito di tenerezza venata di malinconia nel leggere che l’esperienza lettiana delle “larghe intese” avrebbe «sdoganato comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni» (p. 52). Qui, chi scrive non riesce più a capire a cosa il quasi coetaneo Revelli si riferisca. A quale patrimonio di risorse morali, di nobile impegno, di religione della patria, di pedagogia civile? Pensa alla Prima Repubblica, che culmina e crolla con il quindicennio craxiano, ovvero con la corruzione eretta a sistema (ma Amato non ne sapeva nulla, ovviamente)? Al periodo berlusconiano con un Parlamento, si dice di una sola bestialità per non citarne milioni di altre più gravi, pronto a votare, a beneficio del Dominus (anzi, del Priapus), a proposito di età e prestazioni della giovane (o giovanissima? qui il punto) “nipote di Mubarak” (in un ruolo, per dir breve, fra l’ispettore sanitario che visita il bordello e l’ufficiale dell’anagrafe). O più indietro ancora, pensa alla lunga fase di ibernazione democristiana, al paese clericale e ipocrita e alla sua classe dirigente infingarda e corrotta, di cui è stato personaggio simbolo oltre che politico maggiormente votato il colluso di mafia onorevole Giulio Andreotti (ma solo fino al 1980 – e quindi un politico quasi buono, no ? – come ha sancito la sentenza d’appello a Palermo nel 2003). Oppure, andando fino alle origini della Repubblica, e qui siamo a fuochetto dopo tanto acqua acqua, a quella esigua schiera di fuorusciti e perseguitati dal fascismo che per una manciata di mesi – il «vento del nord» – riuscirono a far soffiare sulla palude morale e le macerie di un Paese vinto un brezzolina di primavera e che, sebbene presto cacciati dalle stanze del potere (il caso Parri docet) e mentre intanto Togliatti con l’amnistia del 1946 mandava libere intere falangi di gerarcume, hanno offerto all’Italia, come dono d’addio, quella Costituzione che oggi infastidisce così tanti (indiziata da JPMorgan, fra i leader della finanza mondiale, di intollerabili eccessi di socialismo). La quale, rimasta per molto tempo inattuata (solo nel 1956, per fare un esempio, cominciano i lavori della Corte Costituzionale) dovette a lungo coabitare con il Codice Rocco («e se i legislatori saliti al potere dopo la liberazione non hanno avuto il coraggio o l’accortezza di sconfessare apertamente la vecchia legalità e di crearne una nuova, non c’è da meravigliarsi che i magistrati, rimasti attaccati al filo illusorio della continuità giuridica, si siano fatti senza volerlo i restauratori della legalità fascista», scriveva nel 1947 Calamandrei, che se ne intendeva, avendo partecipato in prima persona alla stesura del codice di procedura civile d’epoca fascista). Ribalterei dunque il generoso assunto di Revelli, per farne l’amara conclusione di un discorso, il suo, inattaccabile nelle sue premesse: la totale assenza di lavoro pedagogico da parte delle generazioni del passato (e si intende ovviamente del ceto politico e intellettuale repubblicano, senza andare a ritroso fino al fascismo: il bilancio sarebbe ancora più catastrofico) conduce inevitabilmente a Berlusconi e a Renzi, ed invera l’unica forma di regime che sia veramente connaturata al popolo italiano, il cesarismo (lo aveva ben capito e perfettamente spiegato un intellettuale primo-novecentesco Guglielmo Ferrero, poi esule negli anni del fascismo): un duce, più ammaliatore che manganellatore (i tempi cambiano), una classe parassitaria di mandarini, il coro degli adulatori, una fiscalità esosa che spreme le classi che producono. I cui membri, nella moderna posizione di elettori, o si rifugiano nell’astensionismo o si lasciano abbagliare dai giochi di prestigio di illusionisti educati da pratiche demagogiche ormai secolari; favoriti in più da un particolare contesto sociale e morale (quello dell’ «io so’ io e voi nun siete un cazzo» del marchese del Grillo, straordinaria incarnazione del carattere italiano), dove si preferisce sempre affidarsi alla benevolenza del potente piuttosto che esigere il rispetto del diritto. Nello specifico, a titolo di esempio: nessuno nel Bel Paese si scandalizza né mette mano alla legislazione per il fatto che un certo numero di lavoratori sia stato lasciato da un’improvvida legge a mezzo il guado tra lavoro e pensione, né che a dei dipendenti dello stato, i supplenti temporanei della scuola, venga sistematicamente negata una regolare retribuzione, visto che i soldi arrivano a singhiozzo e gli stanziamenti sono sempre insufficienti. Mentre, quale gioia e riconoscenza per ottanta euro concessi a pioggia, per cinquecento regalati ai diciottenni, per la tassa sulla prima casa abbuonata a tutti, poveri, ricchi e straricchi, con lo stesso gesto con il quale nei carnevali dell’Ancien Régime i nobili gettavano dai carri leccornie al popolo affamato. Insomma, per chiudere allegramente con un po’ di latinorum, nemo ad impossibilia tenetur; né un popolo dai cattivi costumi né un benintenzionato studioso di politica.

 

Marco Revelli, Dentro e contro, Laterza, Roma-Bari 2015, pp 143, € 14