Cortile a Cleopatra di Fausta Cialente

| | |

Un libro che si apre è come un sipario che si alza: i personaggi entrano in scena, la rappresentazione comincia

di Luisella Pacco

 

Mentire è semplice. Potrei quindi, senza difficoltà, dirvi una bugia: potrei dire di aver sempre conosciuto Fausta Cialente, di averla letta e apprezzata nel corso della mia vita. Potrei salvare la faccia dicendo che in questo periodo sto rileggendola… (come scriveva Italo Calvino in Perché leggere i classici, “il prefisso iterativo […] può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d’ammettere di non aver letto un libro famoso”).

Potrei. Ma la verità è un’altra, ed è bene confessarla.

A una cena, pochi mesi fa, qualcuno di fronte a me cita questa scrittrice (triestina, in un certo senso, eppure cittadina di nessun posto e di tutti; “sono sempre e comunque straniera”, diceva di sé).

Con franchezza, ammetto di non conoscerla o quanto meno di non ricordarla. Chi l’ha nominata strabuzza gli occhi e mi rimprovera simpaticamente, invitandomi a scoprirla.

Ebbene, raramente un suggerimento è stato tanto prezioso. E se oggi ne scrivo, è per ringraziare quella persona, per fare ammenda di quella mia ignoranza, e perché forse – come me – c’è ancora qualcuno che non conosce Fausta Cialente o che, sentita vagamente, l’ha poi nuovamente dimenticata. Perché – e questo è un fatto – se ne parla poco; troppo poco.

 

Nata a Cagliari nel 1898 da padre abruzzese e madre triestina, Fausta si abitua subito agli spostamenti, a causa della professione del padre, ufficiale di fanteria. Vive a Padova, Milano, Roma, Firenze… Ma la città del cuore è Trieste, dove – molto più in là negli anni, ripercorrendo la storia della famiglia materna – ambienterà il romanzo Le quattro ragazze Wieselberger (Premio Strega 1976).

Nel 1920 incontra l’uomo che diventerà suo marito e che la porterà a vivere ad Alessandria d’Egitto. È appunto in terra egiziana che Fausta comincia la stesura del primo libro, Natalia. Seguiranno due tributi al mondo levantino, Pamela o la bella estate (1935) e Cortile a Cleopatra (1936).

Nel 1940 le viene proposto di tenere una trasmissione antifascista alla radio del Cairo. Nel 1943 fonda un settimanale di politica e cultura, Fronte Unito, destinato ai prigionieri di guerra italiani. Nello stesso anno, il fratello Renato Cialente, noto attore, muore in un incidente che rimarrà sempre sospetto. Rientrata in Italia anche per stare vicino alla madre, nel 1950 lavora per L’Unità e per Noi donne, rivista del PCI che si rivolge alle donne che vogliono esser parte attiva nella costruzione di una nuova Italia.

Negli anni che seguono viaggia ancora, di nuovo in Egitto, che però trova profondamente cambiato, e in Kuwait, dove la figlia Lili, sposata ad un inglese, è andata a vivere.

Ballata levantina viene pubblicato nel 1961, e si piazza terzo al Premio Strega.

Negli anni successivi, escono Un inverno freddissimo (1966, da cui verrà tratto lo sceneggiato Camilla con Giulietta Masina), tutto ambientato a Milano, e Il vento sulla sabbia (1972), ultimo omaggio, velato di nostalgia, all’Egitto.

Nel 1976 torna agli affetti, alla famiglia, alle radici: ricordi dolci ma anche dolorosi (dirà “ho sempre scritto per desiderio […] e per piacere, salvo quest’ultimo lavoro, lacerante”) con Le quattro ragazze Wieselberger, il romanzo triestino, appunto, con cui vincerà lo Strega.

Né va dimenticata l’attività di traduttrice (Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, di Louise M. Alcott, I miti greci di Hawthorne, Giro di vite di James).

Muore in Inghilterra nel 1994, a novantasei anni, belli intensi impegnati.

Opere importanti, profonde, molto differenti tra loro, difficilmente collocabili nel panorama narrativo italiano; un orizzonte larghissimo, l’occhio sapiente che abbraccia e indaga con curiosità una consistente porzione di mondo.

Nel 1933, nell’Almanacco Letterario Bompiani, Fausta Cialente biasimava nelle scrittrici “l’ossessione autobiografica. Quando una donna si mette a scrivere, nove volte su dieci è per raccontarvi i suoi fatti, e più essi sono intimi, più ve li racconterà con insistenza, entusiasmo e prolissità. La scrittrice tende a centralizzare intorno al suo io l’interesse dell’universo, nasconde male la pretesa non poco petulante di commuovere questo mondo perché è stata sedotta da ragazza o perché ha dovuto prendersi un amante da maritata […] La scrittrice è per lo più meschina. Le mancano quasi totalmente una disinteressata comprensione dell’umanità, una visione più larga dell’universo. Attaccata al peso della sua matrice, geme, si dibatte e spesso sragiona”.

Ecco, ciò che criticava con estrema durezza nella donna che scrive, Fausta Cialente lo evita in ogni modo con rigore, fuggendo dall’autobiografismo patetico anche quando l’opera sia di chiara ispirazione autobiografica. La sua scrittura è accogliente, comprensiva, calda di umanità palpitante e variegata. Cialente è (come lo scrittore dev’essere) proiettata fuori di sé.

Scelgo, per iniziare questo mio tardivo viaggio nel suo universo letterario, il primo romanzo ambientato in Egitto, Cortile a Cleopatra (Cleopatra è un quartiere di Alessandria).

Quando esce nel 1936 passa quasi inosservato. Ripubblicato nel 1953, invece, ottiene ampi consensi. “Uno dei più bei romanzi italiani dell’ultimo ventennio”, lo definisce il critico Emilio Cecchi.

“Il compito del narratore” aveva dichiarato Cialente “è anzitutto quello di rappresentare. Un libro che si apre è come un sipario che si alza: i personaggi entrano in scena, la rappresentazione comincia”. E questo romanzo è profondamente teatrale. Gran parte della storia si svolge in un cortile, appunto, uno spazio delimitato, come un palcoscenico.

Protagonista è Marco, figlio di un imbianchino italiano che era tornato in Italia fuggendo dalla moglie greca. Ora il giovane Marco ha viaggiato al contrario, per tornare dalla madre Crissanti, donna dal viso tranquillo, d’un bianco trasparente, l’orlo della gonna che sfiora il pavimento. Non le si vedono mai i piedi, forse non li ha – come gli angeli.

Per Marco, Alessandria potrebbe essere una terra d’origine (ma ne esiste davvero una, per uno come lui? Uno sradicato, un impuro, un mezzosangue, un perdigiorno; nessuna vera patria, nessuna voglia di averne). Passa le giornate oziando in compagnia della scimmietta Beatrice. Gli gira attorno uno stuolo di personaggi. C’è l’araba Kikì, l’amica innamorata di lui, e a lui molto simile: selvaggia, libera, vagabonda. C’è Dinah, la figlia del pellicciaio ebreo, privilegiata, borghese, la ragazza con cui si fidanza, percependo però chiarissima la distanza che li separa, e che lo irrita e lo spaventa. C’è l’armena Haiganush, ciarliera, irascibile, dai forti tratti color oliva dipinti e incipriati. C’è Polissena, la servetta. C’è Eva, madre di Dinah, donna ancora sensuale e bella, di cui Marco brevemente si invaghisce, causando, con questo rapporto, la tragedia finale.

C’è un piccolo mondo vivo, brulicante, che si affaccia tutto sul cortile. C’è così tanto colore e dolore e sapore, così tanta vita da lasciarmi senza fiato. C’è la piccola bottega oscura dell’orologiaio, con le catenelle, le medagliette, le perle false ingiallite come la vecchia cera. Ci sono gli occhi neri, calmi, senza domande. Ci sono tra i capelli scuri, le ciocche bionde come i pennacchi del granturco. C’è il vento fiacco che muove appena la testa dei dattolieri. Ci sono le capre che belano sommessamente sopra un monticolo. C’è l’arrotino che ha arrotato l’ultimo coltello e se lo passa su palmo facendolo scintillare. Ci sono i singhiozzi rotondi, gonfi, di una fanciulla che piange. C’è il sale in grossi blocchi opalescenti, lì dove il mare è evaporato. C’è il vento di terra, che quando vien su forte, alza la sabbia fino a velare di giallo il cielo. Ci sono i musicanti che sonnecchiano tenendo sulle ginocchia tamburi e cornamuse. C’è una scimmia seduta su una spiaggia ad annusare il mare…

Accennarvi meglio alla trama? No, lo capite, non si può, con certi libri non si può. Sono libri che si leggono e basta, si leggono con l’aria salmastra nel naso, le spalle bruciate di sole, la fronte aggrottata per la troppa luce, la bocca piena di mandorle e pistacchi.

Ci si vive dentro, tutti interi, come in un sogno.