Australia 9: East Macdonnel Ranges

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Quando finisce l’asfalto è solo polvere e mal di schiena

Rainbow valley è una cartolina appesa al cielo e solo mosche e caldo

di Pericle Camuffo

 

Sembra tutto più spoglio da questa parte dei ranges, più abbandonato. Anche i colori sono meno intensi, e mi sono un po’ rotto le palle di girare tra cielo e terra e niente altro da fare. La Ross River hwy è solo asfalto e silenzio, e caldo. A Trephina Gorge non trovo la “gorge”, cammino per un tempo che mi sembra non finire mai sulla sabbia bianca e spessa di un fiume che non c’è, e solo alberi piegati, memoria di acque che evaporano rubate dal sole e rami spezzati che bucano i piedi, formiche giganti e honeybag che tremano nelle orecchie le loro ali di metallo.

N’Dhala Gorge è chiusa per tubercolosi. Un cancello di ferro blocca la strada, e sul cancello c’è un grosso cartello che dice: “Disease control area. Tuberculosis&Brucellosis. This gate must be permanent CLOSE”. Non capisco bene cosa ci sia oltre quel cancello, ma non mi va di prendermela. Giro la macchina e me ne vado.

. La strada è piena di buche e vibra tutto, dentro e fuori di me. Un cammello mi blocca, è fermo in mezzo alla strada, immobile. Mi fermo anch’io. Ci guardiamo. Quando vedo che non ha intenzione di spostarsi, spengo il motore e aspetto. L’Australia è piena di cammelli che girano liberi e indisturbati. Si dice che ce ne siano circa 700.000. E’ un numero enorme destinato a crescere visto che si raddoppia ogni 8 anni e c’è chi ha ipotizzato un futuro australiano popolato da 60 milioni di cammelli. Una vera e propria invasione. Sono stati portati qui dall’ Africa e dall’Asia nella seconda metà dell’Ottocento per essere usati come mezzi di trasporto e di lavoro perché erano gli unici animali a resistere al deserto australiano, e poi, quando non servivano più, sono stati lasciati andare. Si sono trovati così bene che invece di morire, si sono moltiplicati e rinforzati a tal punto, che la razza australiana è tra quelle più resistenti al mondo. Solo che adesso sono diventati un problema, e come ogni problema, vanno eliminati. Soluzione uno: catturarne circa 60.000 l’anno per esportarli. Soluzione due: abbatterli e mangiarseli. Di un programma di sterilizzazione nessuno ha parlato. Non esiste una terza soluzione. Chissà se questo qui verrà catturato o ammazzato, ma io lo lascio dov’è, dove vuole stare, mi accendo una sigaretta e aspetto che se ne vada.

 

 

Arrivare fino ad Arltunga non serve a niente. L’unica cosa interessante è la strada, uno sterrato ben tenuto che sale e scende e dove i road trains sono solo nuvole di polvere e rumore che passano come spettri, lasciandoti pieno di terrore. Le rovine del vecchio insediamento di cercatori d’oro sono silenziose ed inutili costruzioni in pietra che a me non dicono nulla. Tutto questo posto mi dice ben poco. Guardo i miei Blundstone pieni di terra rossa con dentro le calze sudate e piene di terra rossa, e i miei vestiti pieni di terra rossa e le mutande e i capelli e tutto quanto è pieno di terra rossa, di polvere e di strada e di fatica. La terra non è più sotto di me, staccata e distante, non ci passo più sopra, non la calpesto, ma ci passo attraverso. Sono diventato parte di questa terra, respira con me ed io con lei.

Ma non so se questo processo di avvicinamento significhi anche un processo di avvicinamento a me stesso, perché sono stanco e non so se arrivare fin qui abbia o meno significato qualcosa. Non so se io significo qualcosa in mezzo a tutto questo. Mi mancano le notti di Sydney. Mi manca una donna. La notte, qui, è solo piena di zanzare e del rumore costante del generatore diesel del cadente Arltunga Hotel.

 

 

Rainbow valley è una cartolina appesa al cielo e solo mosche e caldo. Sto seduto sotto il gazebo, all’ombra, ma mi sembra di essere al sole. La pelle frigge lo stesso, l’aria è troppo calda e devo respirare piano, mandarla giù lentamente per non incendiarmi i polmoni. Guardo la roccia e aspetto che mi parli, ma resta muta. E quando le mosche lasciano spazio al silenzio, quando per qualche secondo se ne vanno prima di ripiombarmi addosso, fa quasi male la totale mancanza di suoni. C’è solo il vento a dialogare con la roccia, laggiù, ma io non capisco cosa si dicono, parlano la lingua della terra e mi lasciano qui solo, a morire.

Purtroppo, per me tutta la bellezza qui attorno è solo bellezza e basta, grande, immensa, che toglie il respiro, un paesaggio mozzafiato, ma niente di più. Per gli aborigeni, invece, il paesaggio è un’esecuzione testuale, al suo interno sono contenuti i significati che stanno alla base di tutto il loro sistema ontologico. Non possedendo una cultura scritta, dei testi a cui affidare le proprie conoscenze e le proprie storie in modo che vengano tramandate da una generazione all’altra, leggono ed insegnano a leggere il paesaggio. La terra è il loro testo. Ogni caratteristica del terreno è un evento, una traccia lasciata dal passaggio degli Antenati durante il loro vagabondare creativo che ha dato vita al mondo. Il paesaggio è immagine e memoria del passato ancestrale, ed è per questo che l’identificazione tra individuo e territorio è pressoché totale. Ciò che per me sono solo roccia e sabbia e alberi, per gli aborigeni sono le parole degli Ancestors, la Legge, tutto quel complicato sistema di regole rituali, sociali economiche ed ambientali a cui gli aborigeni si riferiscono e con cui si identificano. Leggere, conoscere e capire queste parole, queste storie, significa riattivare la magia e la potenza del Tempo del Sogno, significa diventare l’Antenato, ma anche assumersi la responsabilità di portare avanti questa narrazione, di non lasciarla muta e morta. Leggere la terra significa appartenere alla terra, cioè essere legati ai progenitori ancestrali e di conseguenza partecipare, pur nella vicenda quotidiana e temporale, all’eternità. Gli aborigeni, attraverso la lettura del paesaggio, ritornano al momento aurorale della creazione e gli Antenati, attraverso gli aborigeni, non smettono mai l’eternità del loro atto creativo. Tutto questo avviene con un movimento circolare in cui ogni parte muove, ed è mossa, dall’altra. Eternità e temporalità non sono, nella cultura aborigena, mai separate o in competizione, bensì sempre e comunque una all’interno dell’altra.

Ma per me, incapace di leggere la terra e di partecipare dell’eternità che essa custodisce, la breve camminata che mi porta sotto le pareti sbriciolate di quel monte, è solo un cammino verso qualcosa che non ha a che fare con la mia dimensione, con il mio modo di abitare il mondo. E’ un cammino verso la perdizione, verso il nulla. Nell’outback sei un involucro vuoto e devi fartene una ragione.

Vorrei aspettare il tramonto. Ho letto che quando il sole scende, qui si scatena una danza di colori che sconvolge e supera ogni aspettativa. Ma non lo farò. C’è troppa energia qui attorno, una forza che non riesco a gestire e che mi travolgerebbe se mi fermassi ancora. Diventerei un altro colore nella pazza danza del tramonto e svanirei per sempre.

 

 

Sulla Hugh River Stock Route, le buche che non riesco a vedere e ad evitare, mi spaccano la schiena. Ogni tanto devo fermarmi per aprire uno dei mille cancelli che racchiudono il nulla, che cercano di contenerlo e sembrano messi lì apposta per prenderti per il culo. Sembra una cosa folle recintare il nulla, tenerselo per sé, farlo proprio. Ed invece l’outback è tutto recintato e segnato su mappe depositate da notai lontani, è tutta proprietà privata. Puoi attraversarle, ma devi sapere che stai entrando a casa di qualcuno, e ricordarti di chiudere la porta. Le cattle station australiane sono le più grandi al mondo, forse in Argentina c’è qualcosa di simile, ma qui le loro dimensioni vanno enormemente al di là di ogni nostro concetto di proporzioni, di vastità. Maryvale, che ha i suoi confini proprio qui, è una proprietà di 3200 chilometri quadrati. L’intero Friuli Venezia Giulia ne ha poco più del doppio e ci vivono quasi due milioni di persone. Qui non c’è nessuno, non vedi nessuno, non senti nessuno e allora è naturale chiedersi perché sia tutto recintato. Non c’è neanche una vacca scassata che gironzola, niente di niente, solo tu e la polvere e il cielo e il sole. Correre per più di un’ora in quel vuoto mi ha succhiato l’anima, ma mi ha riempito gli occhi di una bellezza senza nome.

Mi sono fermato a Ewaninga, un altro pozzo d’energia, un luogo sacro per gli aborigeni. C’è un silenzio diverso, l’ho sentito appena sono sceso dalla macchina. Non è il solito silenzio, è più simile ad una tranquillità, è una sorta di pace, come se qualcuno stesse dormendo e facesse sogni splendidi. Ci si sente quasi al sicuro camminando tra le rocce, ci si sente protetti, avvolti, cullati. E anche se c’è scritto che questa è una zona sacra per gli aborigeni e di rispettarla, la rispetteresti comunque anche senza leggere il cartello.

Le grosse lastre di roccia su cui mani antiche hanno inciso segni che sono indicazioni di percorso e spirito, sono spezzate, ma si riesce comunque a sentirne l’energia. Le pitture e le incisioni aborigene sono mappe del territorio. Ma non si deve fare riferimento al concetto occidentale di rappresentazione topografica, perché si rischia di allontanarsi troppo dall’approccio aborigeno alla questione. Ci sono dei casi in cui l’arte aborigena si può identificare con la rappresentazione più o meno precisa di una parte del territorio australiano, ma questa interpretazione è di solito grossolana. Nella prospettiva aborigena, il territorio è un sistema di segni e di riferimenti, di tracce precise ed inequivocabili. Piuttosto che topografie del suolo, queste incisioni, e l’arte aborigena in genere, sono rappresentazioni concettuali che hanno a che fare con il complesso concetto del Dreamtime. Queste mappe sono la raffigurazione della presenza ancestrale sulla terra, degli spostamenti degli Antenati, delle loro soste e azioni e danze e canti e storie. Queste lastre incise sono contemporaneamente delle sacre parabole e delle cartine stradali, una combinazione di storia, di omelia morale, di istruzioni pratiche per trovare un pozzo, del cibo, un percorso sicuro. Penso che sia la complessità di tutto questo intreccio di dimensioni, vite, preghiere e cerimonie, che rende magico questo posto.

Passerò la notte nel piccolo spiazzo qui fuori, accarezzato dalle stelle e dalla sacra mano degli Antenati. Devo raccogliere un po’ di legna e farmi da mangiare, e spero che non arrivi nessuno a rompere questa pace, perché ne ho bisogno prima di ritornare, domani, ad Alice Springs, consegnare questo Toyota, riprendermi la mia Mitsubishi Magna e cavalcare la Stuart hwy verso sud, verso Adelaide.