Avanti col piano (ma piano)

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Risale a 35 anni fa il travagliato avvio del recupero della Cittavecchia triestina

di Roberto Curci

 

Ci vollero sedici anni per tirar su la Cupola del Brunelleschi e altri quindici per coronarla con la Lanterna. A Michelangelo bastarono quattro anni per gli affreschi della volta della Sistina, e sei per il Giudizio Universale. Facevano presto e bene (pardon: meravigliosamente) all’epoca.

Per venire umilmente dalle nostre parti: in cinque anni fu eretto il Castello di Miramare, in sette Palazzo Carciotti, in appena tre il Palazzo della Borsa Vecchia. Ma or non è più quel tempo e quell’età. Burocrazia esasperata ed esasperante, beghe e polemiche, dibattiti a non finire tra addetti ai lavori e “ggente” comune. Velleità e dilettantismo. Pastoie di ogni genere. E tempi lunghi, lunghissimi, assurdi, incomprensibili.

L’ovvia riflessione riaffiora alla recente notizia dell’OK comunale al completamento di quello che a suo tempo fu definito il Piano di Recupero della Cittavecchia di Trieste. Di che si tratta? Di una faccenda, in realtà, assai piccina: la cancellazione di quell’obbrobriosa mini-landa (sassosa o fangosa) antistante quanto resta di Casa Francol, all’incrocio tra via di Crosada e via dei Capitelli; il suo sensato inserimento nel contesto di quella superstite fettina della Trieste medievale; insomma la pezza mancante di un’operazione sacrosanta nelle intenzioni, appena mediocre nei risultati (ma poteva andare molto peggio).

Rimane il legittimo dubbio: quanto ci vorrà per veder davvero risanato quel fazzolettino di territorio, per passare dalle carte al prodotto finito? I precedenti, in città, non fanno bene sperare: e, anche a trascurare i tanti altri punti dolenti su cui si dibatte da anni senza mai arrivare al dunque, basti rammentare che il Piano di Recupero di Cittavecchia compie quest’anno la bellezza di 35 anni di età, risalendo nella sua prima configurazione al 1987. Trentacinque? Possibile?

Possibilissimo, considerato che data alla primavera di quell’anno l’affidamento da parte del Comune al CIET (Consorzio imprese edili triestine) dell’elaborazione di un “programma di riqualificazione urbana” per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge regionale 18 del 1986 che regolamentava recuperi urbanistici ed edilizi. In tempi brevissimi il progetto (evidentemente già pronto nel cassetto) è varato, approvato, benedetto dalla Sovrintendenza diretta da Domenico Valentino e dalla Regione, che concede un finanziamento di quasi cinque miliardi per l’urbanizzazione primaria, gli espropri e la sistemazione alternativa dei residenti.

Il piano, battezzato “Via dei Capitelli”, reca sei firme di architetti e ingegneri: Bartoli, Cervesi, Dambrosi, Riccesi, Tamburini, Varini, con sei collaboratori progettisti. Prevede, tra l’altro, l’erezione di due “case-torri” esagonali, in entrata e in uscita al nuovo assetto, la creazione di una grande piazza centrale (30 metri per 30), un parcheggio sotterraneo da 500 posti, modifiche ai tracciati viari, costruzione di sottopassi pedonali, mentre muta decisamente la fisionomia delle facciate delle case, in spregio del criterio “com’era-dov’era” adottato nel recupero Iacp della zona antica a monte del Teatro Romano (ex Rena Vecia). «Si prevedono – scrive all’epoca il settimanale Il Meridiano – connubi neoclassico-postmoderni, con l’inserimento degli elementi architettonici di pregio, specialmente portali, ricavati dagli edifici in rovina».

Inevitabile, deflagra la polemica. Il quotidiano locale è il collettore delle feroci contestazioni di noti esponenti della cultura architettonica: Semerani e Tamaro, Celli, Pozzetto, Bolaffio, Contessi e molti altri, cui si aggiunge Italia Nostra, che darà vita a un “Comitato per salvare Cittavecchia”. E gli anni cominciano a sgranarsi: si arriva al gennaio del 1990 per l’effettivo affidamento dei lavori al CIET da parte della giunta comunale, senza gara d’appalto. Apriti cielo. Cittavecchia diventa un caso nazionale: interviene il ministro Ronchey, ne parlano i giornali e L’Indipendente titola «Una torta di nome Trieste. Niente appalti, solo lottizzazioni negli affari d’oro del centro storico».

Il CIET si era difeso già nel 1989 con una mostra “didattica” e un volume edito da Alinari, Nuovissima Trieste antica, con le splendide fotografie di George Tatge. Ma il tempo non è galantuomo. Arriva il 1993 e si deve constatare che la situazione è in totale stallo, anche per le rivendicazioni di quanti sostengono, non a torto, la necessità di una campagna di preventivi scavi archeologici nell’area in questione. «Se troveremo le terme romane, di cui da tempo si favoleggia – dichiara il sindaco Staffieri – blocco il piano e telefono a Pavarotti, perché voglio che canti l’Aida a Trieste».

Il 1993 è l’anno in cui, dopo alcune demolizioni inconsulte, si ferma tutto. Costruire, prestigiosa rivista di architettura, pubblica un dossier che è un j’accuse. In novembre Il Piccolo realizza un inserto di sedici pagine intitolato “La vergogna di Cittavecchia” (sommario: «mentre tutti litigano contro tutti / da questo universo allucinato / di mura smozzicate e di rottami / se ne sono andati persino i gatti»).

Sarà appena al tramonto del secolo e del millennio (1998) che le cose cambieranno. Accadrà grazie al ricco regalo dei fondi comunitari europei che consentono l’avvio del Progetto Urban, i cui primi esiti operativi (restauri, conservazioni tipologiche, ristrutturazioni edilizie) si vedranno nel 2001. Si continuerà poi a spizzico, con interventi ripartiti in cinque lotti («nel rispetto della memoria storica») che comunque faranno ancora discutere, irritando soprattutto i nostalgici irriducibili dell’originario impianto medievale.

Da allora vent’anni sono passati, e in tutto fanno appunto 35. La mini-landa è ancora lì, con tutti i mutamenti di umore che quel pezzetto di terra ha suscitato nei civici reggitori dal 2000 in poi. Quanti altri anni passeranno? Proviamo a scommettere?

 

Casa Francol

da nobile dimora a rudere