Prigionieri dell’ex alleato

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Riflessioni sulla detenzione dei militari italiani internati in Germania dopo l’otto settembre

di Fulvio Senardi

 

Mentre, insieme a febbraio, vanno spegnendosi gli echi del rancoroso pigolio, un tempo solo molesto ora vieppiù prepotente, di coloro che vorrebbero piegare la Storia ai dogmi ideologici (e di quale ideologia!), un libretto del 2017, la cui circolazione è stata fortemente impacciata dagli anni pandemici, viene a ricordarci, sempre in tema di Seconda guerra mondiale, una vicenda che ha riguardato oltre 600.000 italiani; si tratta, per essere più chiari, dei soldati del Regio esercito che dopo l’8 settembre, internati in campi di concentramento tedeschi in condizioni orribili (perché privi di quelle garanzie del diritto internazionale e di quei sostegni di sussistenza che solo una riconosciuta ed attiva statualità poteva garantire), scelsero di non aderire alla Repubblica sociale italiana e di vestirne la divisa. Fu di rado, soggettivamente parlando, una consapevole scelta anti-fascista (al contrario di quanto sostiene una linea interpretativa storico-memorialistica di cui è da citare il libro di Alessandro Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, con introduzione di Enzo Collotti, pubblicato, a più di trent’anni di distanza dalla stesura –  non lo vollero gli Editori Riuniti – nel 1997): in gran parte vi contribuì, da un lato, il desiderio di farla finita con una guerra non sentita e considerata irrimediabilmente perduta, dall’altro un’idea di onore militare (molto diffusa tra l’ufficialità di carriera e di complemento) legata al giuramento che impegnava fedeltà a «sua Maestà il Re ed ai suoi Reali Successori».

Eliseo Tonani dal cui diario di prigionia, Lacrime e destino a Luckenwalde (Fuorilinea 2017), prendiamo spunto racconta che solo una minima parte degli internati del suo campo accondiscesero alla richiesta di aderire alla Repubblica sociale e di continuare la guerra: 16, tra i quali un ufficiale, sui 16.000 internati a Luckenwalde, spiega la nota del curatore. In una prospettiva più ampia, nel volume che ormai fa testo sull’argomento e che citeremo ancora, la ponderosa ricerca di Gabriele Hammermann (Gli internati militari in Germania 1943-45, il Mulino 2004, I ed. tedesca 2002), l’autrice spiega invece che «fino alla fine della guerra quasi un quarto di tutti i militari italiani disarmati si disse disposto a collaborare ancora con i tedeschi sul piano militare» (p. 358). Chi non volle, dunque, ancorché antifascista di fatto, spesso non lo fu per solida convinzione.

A proposito di questo aspetto non secondario della guerra italiana si può veramente parlare di una cortina di silenzio, alzata per ovvie motivazioni ideologiche. Scriveva Nuto Revelli nel 1995, introducendo il diario di prigionia di Luigi Collo: «la storia dei 650.000 militari italiani catturati dai tedeschi è ignorata dalla maggior parte dei giovani, come se quel passato non esistesse». Ma perché un così macroscopico buco nero nella memoria collettiva e ufficiale? A sinistra perché gli internati non rappresentavano la Resistenza propriamente detta, quella dei partigiani in armi, a destra per molteplici ragioni: in primo luogo per non problematizzare il tema del fascismo e della guerra ponendo a carico del regime, dei suoi vertici militari e politici, anche questa triste vicenda di detenzione, violenza e fame; prenderne coscienza, inoltre, avrebbe anche obbligato a collocare sul giusto binario interpretativo il concetto di “morte della patria” così caro alle élite conservatrici (vedi per es. De Profundis di Salvatore Satta): l’8 settembre la patria non muore, era morta nel 1922; è invece, ancora Revelli, «il momento del riscatto», la resurrezione dell’Italia. Si aggiunga ancora, a spiegare l’oblio, che non vi fu alcuna forma di reducismo, come se fosse vergognoso ammettere la prigionia subita.

Una rimozione insomma, che non pare invece sensatamente sostenibile a proposito di altre tragedie storiche: le violenze subite dagli italiani della sponda orientale dell’Adriatico, che il primo romanzo di Fulvio Tomizza, Materada, 1960 (come tutta la sua opera di quel decennio e del seguente) impose all’attenzione dell’opinione pubblica (che invece la politica e gli storici guardassero altrove è altro e più complesso discorso); e neppure la resistenza di reparti dell’esercito che, dando corretta interpretazione al colpevolmente ambiguo proclama Badoglio, non vollero, a costo della vita, consegnare le armi; perché anche di ciò si cominciò prestissimo a scrivere, già negli anni ‘40 e ’50, fino ad arrivare al decisivo Bandiera bianca a Cefalonia (1963) di Marcello Venturi e al profluvio di pubblicazioni di carattere storico che, su questo argomento, videro la luce agli inizi del III millennio (viene da osservare che spesso è la narrativa o la memorialistica a fare da traino alla ricerca storica la quale, di radice generalmente accademica, tende sul piano tematico a muoversi su sentieri sperimentati).

Comunque si tranquillizzi il lettore: non si intende invocare l’istituzione di un’altra ricorrenza celebrativa (anche perché ne mancherebbe il nome: dopo Memoria e Ricordo, potremmo usare Rimembranza, ma suonerebbe goffamente “leopardiana”). Si tratta semplicemente di portare un po’ di luce laddove trionfa ancora il buio, in un momento in cui, nel forsennato conflitto delle memorie che lacera questi decenni di tramonto delle ideologie (ne resta solo una, vincente, quella neo-liberista), molti dei discendenti dei perseguitati del Secolo Breve, lamentando vere o presunte trascuratezze, richiedono attenzione, invocano finanziamenti, esigono celebrazioni, erigono monumenti, ribattezzano stradette di periferia, domandano alla scuola (il grande cireneo della società italiana, e a casse vuote) un impegno specifico e mirato. Per la vicenda di cui parliamo il momento di svolta storiografico è stato, lo ripetiamo, il libro della Hammermann, anticipato una decina di anni prima da un volume di Gerhard Schreiber (e completato dalle ricerche di Christine Glauning nel decennio seguente), e, in Italia, da Rochat, in un convegno sul tema del 1983 (qui vado di corsa, mi perdonino i non citati); mentre intanto si accumulavano le opere di memorialistica, stampate in proprio o presso piccole e coraggiose case editrici (come la Fuorilinea per il libro da cui ho preso le mosse). Ed è alla Hammermann che deve ricorrere tanto chi desidera un inquadramento di massima (non superficiale però né generalizzante), quanto chi vuole approfondire questa tematica superando comodi pregiudizi.

Della disponibilità a collaborare di una parte non inconsistente dei prigionieri di guerra italiani (per i quali si adottò in Germania il nome di IMI – italienischer Militär-internierter – per un loro più facile impiego come manodopera forzata nell’industria tedesca, aggirando le prescrizioni della Convenzione di Ginevra) si è detto; altro pregiudizio da abbattere è quello di un totale disinteresse della Repubblica sociale italiana per la sorte dei connazionali. Vi fu infatti il tentativo da parte di Salò di prestare aiuto con cibo, indumenti e medicinali, trovando però ostacolo, da un lato nella visione punitiva nei confronti dei militari dell’alleato “traditore” diffusa nei comandi della Wehrmacht, dall’altro nell’insufficiente incisività dell’azione dei rappresentanti della RSI presso la Germania, in special modo dell’ambasciatore Filippo Anfuso, più interessato a «consolidare la propria posizione di potere» (Hammermann, p. 370) che ad operare a favore degli internati (esemplare il suo curriculum: volontario fiumano, poi fascista della prima ora, quindi al Ministero degli Esteri con Galeazzo Ciano, poi con la Repubblica sociale, condannato nel marzo 1945 a morte in contumacia per collaborazionismo – ma era intanto fuggito in Francia e visse in seguito nella Spagna di Franco –, sentenza annullata dalla Corte d’assise di Perugia nel 1949, e finalmente, a coronare la bella carriera, deputato del Movimento Sociale Italiano per tre mandati).

Ed Eliseo Tonani, di cui non ci siamo dimenticati? Il libretto, a leggerlo oggi, a tanta distanza di tempo dal terribile contesto e considerando il lieto fine del ritorno a casa, pare quasi un romanzo picaresco. Le avventure si susseguono, inanellando situazioni difficili e qualche volta più lievi – come nel caso delle «amorose simpatie» quando i soldati italiani entrarono in fabbrica per sostituire le maestranze tedesche, messe in divisa e mandate sul fronte orientale, e vi incontrarono lavoratrici deportate russe, polacche, francesi, le quali ultime «avevano l’abitudine di abbracciare e baciare gli uomini» – 48 (ah, beati i vent’anni, anche in prigionia …). Tonani non è uomo di grande cultura, ma di intelligenza sveglia e di grande prontezza di spirito. Vede con lucidità ciò che la storiografia ha pienamente confermato, ovvero che i prigionieri italiani andavano a collocarsi sul penultimo gradino della scala gerarchica degli internati, prima dei russi e dopo tutti gli altri. In aggiunta, ha il sospetto, non immotivato, che le condizioni di vita a cui erano costretti gli italiani altro non fosse che un modo per perpetrare un «omicidio di massa ben camuffato» (per altro il Regio esercito aveva impiegato la stessa strategia con gli slavi – ma generalmente civili, in questo caso – nei campi di Gonars, Raab, ecc.). Risultato: tra i 20 e i 30.000 morti, a quanto consentono di indicare le ricerche compiute. Inevitabile dunque, nella speranza di un vitto più adeguato, la scelta di accettare il lavoro presso una fabbrica tedesca, entrando, scrive Hammermann, nel «circolo vizioso di sottoalimentazione, scarso rendimento e razioni ridotte» (p. 375). Da qui una serie di stratagemmi per sopravvivere, che confermano l’inventiva del Tonani nella sua quotidiana sfida alla morte. L’arrivo dei russi, un esercito vincitore ma straccione, i cui soldati non esitano a togliere ai reduci dai campi i miseri averi, risolve solo in parte, con la liberazione, i problemi degli italiani dispersi a migliaia di chilometri da casa. Il percorso di avvicinamento ai confini della patria – ancora fame, fatica, rischi, eccessi di individualismo e slanci di solidarietà in quantità uguale – è un’odissea serpeggiante nel cuore ulcerato di un’Europa distrutta, non troppo diverso (salvo la differente qualità letteraria, è ovvio) di quello raccontato da Primo Levi nella Tregua. L’ultima pagina, che descrive l’arrivo a Cremona, restituisce le immagini di una stralunata normalità. In attesa del tram che lo porterà al paese, Tonani passa qualche ora al cinema, senza che alla cassa nessuno gli chieda di pagare il biglietto (viene da pensare, per contrasto, al rientro di Imre Kertesz a Budapest dai campi della morte, alle prese con l’irremovibile bigliettaio pronto a cacciarlo dal tram). A Vidiceto l’intero paese è in attesa ma tutto ciò che Tonani desidera è un letto comodo per dormire: «ero così stanco che mi buttai a letto e ci rimasi una settimana. Qualche giorno dopo mia mamma mi disse: “allora, ti rimetti a lavorare?”. La mia odissea era davvero finita».

 

Riquadro:

 

I disegni qui riprodotti sono opera di Nereo Laureni, internato militare italiano in Polonia e in Germania. Oltre 150 disegni suoi (e molti altri documenti) sono stati donati dal figlio al Museo della Risiera. Le opere, consultabili su richiesta, sono state esposte nel 2011 in una grande mostra alla Risiera, corredate dei pensieri e delle riflessioni di Giovanni Guareschi. Nell’occasione è stato pubblicato un volume, ormai esaurito e mai ristampato

 

 

Eliseo Tonani e

Simone Ravara

Lacrime e destino a Luckenwalde

prefazione di Giovanni Scotti

Fuorilinea, 2017

  1. 75, euro 13,00