Benedetti toscani

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Storie di lotte, di stragi e di ordinari eroismi nella Firenze della Resistenza

di Walter Chiereghin

 

Sette anni dopo L’arse argille consolerai, una documentata ricostruzione del percorso biografico di Carlo Levi dagli anni del confino in Lucania a quelli della liberazione di Firenze – ce ne siamo già occupati nel Ponte rosso n. 42, https://www.ilponterosso.eu/2019/03/08/le-arse-argille-di-carlo-levi/ – , Nicola Coccia, giornalista di lunga esperienza, maturata nelle redazioni dell’Avanti!, del Lavoro di Genova, diretto all’epoca da Sandro Pertini, e quindi della Nazione di Firenze, propone con Strage al Masso delle fate, un altro corposo documentatissimo saggio che ricostruisce il medesimo acuminato periodo storico, dal 1933 al settembre del 1944, focalizzando però l’attenzione su un territorio molto più circoscritto, quasi del tutto inscritto nel prezioso tessuto urbano di quella grande capitale della cultura che era – e continua ad essere – Firenze, con rapide incursioni nei territori più prossimi alla città (Visignano credo sia la frazione più eccentrica, a nord del capoluogo, sul confine amministrativo con l’Emilia Romagna).

Anche questo libro, al pari di quello che l’ha preceduto, risente dell’imprinting giornalistico di Coccia, che pure in questo caso subordina la narrazione a un trasparente impegno di cronista, che si conforma ad un agire giornalistico di grande serietà, impegnato prima ancora che a narrare a costruire in primo luogo per sé e quindi per il lettore una fittissima trama di ricerche d’archivio, di letture di quanto è stato prodotto mediante altri libri ed articoli, di interviste ai testimoni, ormai tutti molto anziani, dei fatti riportati in luce da questa accurata inchiesta. Sulla saldezza di tale base documentaria, ricostruita con acribia e scrupolo in quindici anni di ricerche, poggia saldamente l’impianto narrativo che ci restituisce con vivezza il quadro, lo straordinario composito affresco anzi, di un’epoca fortunatamente molto lontana nel tempo per la maggior parte dei lettori, ma tale tuttavia da costituire il presupposto sociale e politico del nostro presente.

Il sottotitolo del libro, Ottone Rosai, Begardo Buricchi ed Enzo Faraoni dal 1933 alla Liberazione di Firenze, fornisce un’anteprima solo parziale dei contenuti, riferendosi a tre artisti – due pittori e un poeta – che ebbero certo un ruolo nelle vicende riportate alla luce da Coccia, ma che costituiscono solo un’elencazione assai ridotta dei personaggi che si possono incontrare nelle pagine del volume, al punto che l’indice dei nomi di pagine ne occupa ben dodici. Fra questi, certo, molti sono intellettuali, artisti che frequentavano le mitiche sale del caffè “Le giubbe rosse”, personalità quali Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Piero Santi, Eugenio Montale, Elio Vittorini, Ardengo Soffici, ma anche una moltitudine di più anonimi personaggi, operai, preti, insegnanti, artigiani, in massima parte toscani, perché tanto la ricostruzione degli ultimi anni del regime quanto la descrizione degli anni più bui della guerra richiedono un concorso più allargato rispetto a quello di una esigua elite di protagonisti.

La prima delle tre parti nelle quali è suddiviso il libro di Coccia si occupa del periodo antecedente la guerra: gli anni Trenta, quelli del consenso degli Italiani al regime fascista, con sapide finestre spalancate su episodi e figure anche cronologicamente anteriori, come quella aperta sulle scazzottate tra futuristi e vociani nei locali de “Le giubbe rosse” e poi alla stazione ferroviaria. Funzione di tale prima parte è anche quella di introdurre le figure di maggior rilievo degli eventi successivi, Ottone Rosai ma anche alcuni altri, narrandone per punti il percorso biografico, il carattere, gli ambiti sociali e culturali in cui si muovevano. Il rapporto col fascismo è una cartina di tornasole anche per figure di primo piano che agiranno poi durante la guerra di Liberazione, come nel caso di Enzo Faraoni, negli anni del suo apprendistato artistico, di Bogardo Buricchi, seminarista, prete mancato e poi insegnante elementare, convinto fascista, in crisi dopo l’8 settembre 1943, che finisce poi per entrare nelle formazioni partigiane e cade durante la clamorosa azione di sabotaggio a Carmignano. Anche Ottone Rosai, futurista. volontario e valoroso combattente nel primo conflitto mondiale, fu fascista della prima ora, ma dal fascismo iniziò ben presto ad allontanarsi, poco prima della marcia su Roma e poi, più recisamente, dopo il delitto Matteotti. A rischio della propria vita, aprì la sua casa ai partigiani, durante la lotta di Liberazione dal nazi-fascismo, ospitandoli lungamente e a più riprese. Anche Bruno Fanciullacci, tra i gappisti più ricercati, trovò asilo presso Rosai durante un periodo di convalescenza successivo alla sua evasione dall’ospedale dove era ricoverato a seguito di numerose ferite e delle torture cui era stato fatto oggetto a Villa Triste, dalla famigerata banda di Mario Carità.

Il Masso delle Fate del titolo, noto anche come Masso della Gonfolina, è un enorme blocco di arenaria che si trova nel territorio di Signa, sulla sponda sinistra dell’Arno e che, anticamente, bloccava il corso del fiume dando origine al lago che occupava l’area della piana fiorentina. Di fronte ad esso, in un’area sorvegliata in armi, una pluralità di edifici costituivano, dal 1915, una grande fabbrica di dinamite, di esplosivi e di munizioni, la “Nobel SGEM Carmignano”, il cui ingresso era proprio di fronte alla stazione ferroviaria di Carmignano. Su un binario morto dello scalo venivano lasciati i carri merce carichi di esplosivi e munizioni, in attesa di essere agganciati da una locomotiva e di partire poi per le diverse destinazioni. Nella notte tra sabato 10 e domenica 11 giugno 1944 otto uomini si incontrarono presso la cava dismessa detta la Cavaccia e di là mossero, divisi in due gruppi, verso il binario morto che ospitava quella notte otto vagoni carichi di esplosivi, qualcosa come 160 tonnellate di tritolo. Il primo gruppo, «formato da cinque antifascisti, era agli ordini di un poeta, Bogardo Buricchi. L’altro agli ordini di un pittore, Enzo Faraoni». Scopo della missione, favorita quella sera dall’assenza di sentinelle tedesche lungo i binari, dal momento che nella vicina fabbrica si dava una festa, era quella di far saltare in aria i vagoni carichi di materiale esplosivo. L’ordigno che doveva fungere da detonatore scattò in anticipo e le tremende deflagrazioni di un carro ferroviario dopo l’altro travolsero gli attentatori, quattro dei quali – i fratelli Bogardo e Alighiero Buricchi, Ariodante Naldi e Bruno Spinelli – persero la vita, investiti in pieno dallo scoppio, e di tre di essi non si trovò più traccia, mentre gli altri, sebbene feriti, riuscirono fortunosamente a mettersi in salvo.

Il drammatico episodio, forse quello più clamoroso della Resistenza in Toscana, affidato in questo caso alla diretta testimonianza di Faraoni, sospende la prosa documentaria per trasformarla in una narrativa avvincente ed evocativa, come del resto avviene in altri casi, tra cui quello della bandiera rossa issata sulla torre più alta di Carmignano, detta il Campano, la mattina del Primo maggio, opera ancora di Bogardo Buricchi, che scendendo dall’alto manufatto smantellò i pioli che gli avevano consentito di scalarlo, rendendo difficoltosa la rimozione a quanti avrebbero voluto strappare quel vessillo, visibile da tutto il circondario. Ma certo non tutti gli episodi ebbero il tono di scanzonata ironia di stampo quasi goliardico di quella bandiera rossa che sventolò da quella torre; tra questi la problematica e tuttora non completamente chiarita vicenda dell’attentato che il 15 aprile del 1944 costò la vita al filosofo Giovanni Gentile, ideologo del regime fascista e poi della sua metamorfosi repubblichina. La ricostruzione che ne fa Coccia lascia trasparire tutta l’incertezza tuttora perdurante circa l’accertamento delle responsabilità della scelta di colpire l’anziano intellettuale, come pure il disagio nella valutazione dell’opportunità di quella esecuzione.

Tutti italiani i personaggi di cui si narra, e quasi tutti toscani, per lo più giovani uomini e donne cui dovrebbe andare la riconoscenza degli Italiani di oggi, ma tra le file partigiane Coccia ricorda anche un ufficiale tedesco, il tenente Alexander Schmiemann, Sandro per i gappisti fiorentini, che disertò per unirsi a quanti combattevano contro il nazismo, riparando anche lui in casa di Ottone Rosai e naturalmente guardato con estrema diffidenza prima che con il suo comportamento fugasse ogni dubbio sulla sua lealtà all’opzione resistenziale. Indossata nuovamente la divisa della Wehrmacht e usando i suoi autentici documenti militari di identità, il 9 luglio 1944, accompagnato da quattro partigiani armati, in abiti civili, penetrò nel carcere femminile di Santa Verdiana per farne evadere Tosca Bucarelli, gappista ventunenne che vi era reclusa. Si portarono via, assieme alla ragazza, altre sedici detenute,senza che si rendesse necessario esplodere un solo colpo.

Storie di ordinari eroismi in una città che si apprestava a vivere la battaglia conclusiva che dall’alba dell’11 agosto, impegnò in un serrato combattimento strada per strada i partigiani contro fascisti e tedeschi che, meglio equipaggiati ed organizzati, si ritirarono dopo tre settimane, il 31 agosto. Anche di quest’ultimo atto della storia Coccia ha documentato alcuni episodi, come farà del resto nella terza parte del volume, relativa agli epiloghi di alcune vicende che, anche molti anni dopo i fatti narrati, coinvolgeranno alcuni dei protagonisti della parte centrale del volume, quella dedicata alla lotta per liberare la città e l’Italia.

 

 

 

Nicola Coccia

Strage al Masso delle fate

Ottone Rosai, Bogardo Buricchi

ed Enzo Faraoni dal 1933

alla liberazione di Firenze

ETS, Pisa 2021

pp.324, euro 22,00