Bologna: la cultura del cibo

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In un volume di Massimo Montanari la storia di una capitale del gusto

di Gabriella Ziani

 

A ristoranti chiusi, mentre noi stessi siamo diventati cibo per l’insaziabile virus Covid, consoliamoci col leggere vicende nate in cucina, molto nutrienti per le succose notizie, di statura economica, sociale, culturale, antropologica, religiosa e politica che si trovano nei piatti e nelle ricette osservati con occhio storico. La storia dell’alimentazione, che vada in orizzontale nei luoghi, o in verticale attraverso il tempo, è sempre una fotografia complessa del mondo. In più è anche divertente, e ci distrae dalla sconsiderata abbuffata di chef in prima pagina e in seconda serata cui ci stanno abituando i nostri sazievoli tempi (che attualmente ci tengono lontani da ogni appetibile menù). Bologna, l’Italia in tavola, il nuovo libro di Massimo Montanari, docente di Storia dell’Alimentazione all’Università (appunto) di Bologna, e massimo specialista italiano sull’argomento, è un altro delizioso capitolo delle narrazioni distese nei suoi tantissimi saggi precedenti (tra cui La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza 1997, l’antologia Il convivio, Laterza 1989, Mangiare da cristiani, Rizzoli 2015, Il sugo della storia e Il mito delle origini, 2016, Breve storia degli spaghetti al pomodoro, 2019, entrambi da Laterza). Ma pure i filosofi hanno qualcosa da dire. E infatti sempre Laterza ha appena raccolto in volume gli scritti che Tullio Gregory (1929-2019) aveva pubblicato per anni sul Sole 24 Ore, il cui titolo anticipa il contenuto: L’eros gastronomico. Elogio dell’identitaria cucina tradizionale, contro l’anonima cucina creativa. Il che ci porta in discesa a raccomandare la riscoperta di Piero Camporesi, dei suoi sfavillanti, dotti e sapidi libri sulle tavole contadine, sulla magie delle erbe, la simbologia del latte e cento altre trasfigurazioni narrative delle “nature morte” che nutrono i viventi.

Ma torniamo a Bologna. Montanari smonta gli ingredienti della sua fama culinaria e li restituisce in un altro ordine. Quasi nulla per cui la doviziosa città è celebre è stato veramente inventato lì, ma secoli di impegno su più fronti l’hanno portata a scalare la hit parade della cucina, dove meritatamente sta tuttora in trono. Già dal 1200, per la ricchezza delle sue campagne (Bologna era chiamata “l’orto di Roma”), a uno speciale senso di ospitalità, all’inclinazione ad accogliere e includere, a farsi attivo centro di scambi prima ancora culturali che economici, e a “viziare” il palato di tutti, la città era come disse il Petrarca “pinguis Bononia”, la “grassa”. E se già Bononia significa luogo che abbonda di buone cose, “grassa” al tempo non indicava una roba unta, ma benessere a tutto tondo, un appellativo che i bolognesi trasformarono in un marchio di fama, dopo essersi accreditati, grazie alla famosa università, come cittadini della “dotta”. E perciò non tanto in cucina, ma nell’abilità costante delle relazioni e nell’impegno a far fiorire l’industria dell’accoglienza è nata questa capitale del gusto. Nel 1200 si contavano già 150 osterie e 50 alberghi. Nel 1553 ci vivevano ben 46 comunità nazionali, la tedesca più folta di tutte, con evidenti contaminazioni anche culinarie. E quanto alla Francia, proprio Bologna fu la porta d’ingresso in Italia della sua cucina grazie alla prima traduzione, nel 1682, del più importante ricettario dell’epoca, Le cuisinier françois di François Pierre de La Varenne, uscito appena l’anno prima.

Ma non basta. Ci racconta Montanari (sforzandosi di aggiornare anche troppo gli stili di un tempo con il linguaggio pop e anglicizzante di oggi – hub, street food, blog, promoter)  che alla vigilia dell’Anno Santo del 1625 le autorità religiose in accordo con quelle laiche emanarono un’ordinanza che indicava quali cibi – fra carni d’ogni genere, pesci, formaggi, verdure e paste – fossero obbligatori sulla tavola di osterie e trattorie per i turisti in arrivo. E stabiliva un prezziario per i pasti, con obbligo di esporre liste e tariffe «acciò li forastieri non siano ingannati». Per i trasgressori si minacciavano pene pecuniarie e perfino corporali («sotto pena di tre tratti di corda da darseli in pubblico irremissibilmente»). Ma ordinanze simili erano già state diffuse dai governi locali nel 1566, nel 1599, nel 1612, in quest’ultimo caso sottolineando che gli ospiti andavano trattati bene per evitare «pregiudizio al buon nome di questa inclita città», e poi altre ordinanze ancora per l’anno giubilare 1725 dove tra i manicaretti immancabili debuttava la novità: prodotti di pasticceria. Una gestione oculata, consapevole delle truffe, decisa a contrastarle.

La stessa attenzione che riservavano ai forestieri (utili agenti pubblicitari…) i bolognesi la indirizzavano alla politica dei mercati, ai dazi, al contrasto alle frodi, ai rigorosi controlli sulla qualità delle derrate, e specialmente della carne destinata a soppiantare la fama degli orti, e attorno alla quale si andrà creando il mito del “paese di Cuccagna”, un simbolo attrattivo in secoli spesso funestati da tremende carestie. Pantagruelica la festa di San Bartolomeo il 23 agosto, quando i signori Anziani della città buttavano dai terrazzi sulla piazza stipata di gente pavoni, oche, fagiani ed enormi porchette arrostiti, che il popolino accoglieva a mani aperte come una manna biblica (il «cibo che cade dal cielo»).

Ma nella decostruzione e ricostruzione del mito gastronomico Montanari  smonta molte credenze. Per esempio gli “spaghetti alla bolognese” sono solo una pensata per turisti nata a Torino nel 1898, perché il ragù (invenzione del 1700) a Bologna non si era mai servito con spaghetti, né si fa adesso. Le lasagne non sono una creazione della “grassa”, ma un prodotto già medioevale diffuso dappertutto. E le tagliatelle nacquero in Persia  fra il terzo e il settimo secolo e a metà del ‘500 la pratica fu comune tra gli arabi, ma nel 1931 un’associazione locale organizzò la festa per «un sedicente quinto centenario dell’invenzione della tagliatella»,  che avrebbe mimato in versione commestibile i biondi capelli di Lucrezia d’Este per il suo pranzo di nozze nel 1487. La creazione di un mito. Un autentico falso. Dove non è dimostrabile un «diritto d’autore», dice Montanari, le ricette «sono frutto di pratiche e saperi collettivi, e diventano “tradizione”, cioè patrimonio comune, quando la comunità decide che ne vale la pena». Vedere per esempio la lunga evoluzione da cui è scaturita la famosa mortadella. Di “cucina bolognese” come exemplum parlerà per la prima volta il geniale Pellegrino Artusi: La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del  1891 (15 edizioni in 20 anni), di fatto  un’operazione anche politica di “unificazione nazionale” attraverso la raccolta di usi culinari alti e bassi.

Era il portato della Rivoluzione francese: siamo tutti uguali. è solo su questa base che si cominciò a valorizzare la “cucina del territorio”, oggi al top, uno spazio per ricchi e poveri alla pari, mentre in precedenza i confini erano definiti dal censo: i nobili mangiavano cose sfiziose soprattutto straniere e i “villani” dovevano accontentarsi di quel che c’era a portata di mano. Ma la “democratizzazione” andò lenta nel promuovere la donna come cuoco raccomandabile in pubblico. I vari libri della “cuciniera” iniziati nel ‘700 confinavano le doti femminili alle tavole domestiche, e solo nell’800 con i processi liberal-democratici legati all’ascesa della borghesia quel sapere salì di un gradino. E oggi? L’orto è moda, l’industria impacchetta e svilisce, i cuochi “stellati” ricreano la differenza di censo abbassando le quantità e alzando i prezzi (i ricchi non hanno fame, hanno soldi). C’è più politica in cucina che nelle altre stanze. E Bologna è un proprio un gustoso esempio.

 

 

Massimo Montanari

Bologna, l’Italia in tavola

Il Mulino, Bologna 2021

  1. 184, euro 15,00