Caporetto cent’anni dopo

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di Fulvio Senardi

 

Affrontando il più difficile dei capitoli del suo Scene della guerra d’Italia (1915-1918) (edizioni Fuorilinea, Monterotondo, 2015) lo storico inglese George Macaulay Trevelyan, che quella guerra aveva visto da vicino guidando un’unità di ambulanze della Croce Rossa Britannica in servizio sul fronte isontino, così esordisce: “tutti i significati che ha ora la parola ‘Caporetto’, le cause e gli effetti, immensi e complessi, del disastro […], la mentalità e il carattere di un popolo, i meriti e i difetti del suo sistema politico e di istruzione, gli atteggiamenti delle varie classi sociali e dei partiti verso la guerra, la propaganda del nemico, il malcontento dei soldati al fronte, la strategia mondiale di Ludendorf e le nuove tattiche dei tedeschi, le azioni di Cadorna e dei suoi subordinati, Rapallo e l’arrivo degli alleati, le alterne fortune di quella immane battaglia campale invernale, tutto ciò riempirà volumi, scaffali e biblioteche per le generazioni avvenire.” Profezia fin troppo facile, le cui ombre alleggerisce il lieto fine della vittoria dell’Intesa, della quale Trevelyan, con non poche illusioni democratiche e umanitarie, è appassionato sostenitore.

In effetti è da cent’anni che ci occupiamo di Caporetto, quella dodicesima battaglia dell’Isonzo che iniziò il 24 ottobre e portò in pochi giorni gli austro-tedeschi fin sul Piave, con focalizzazioni che hanno risentito, le mette magistralmente in rilievo Nicola Labanca nella sua ultima monografia (Caporetto. Storia e memoria di una sconfitta, il Mulino, 2017), dei mutamenti dello spirito pubblico, dei sistemi politici, dei differenti approcci degli storici. Il termine stesso è entrato di prepotenza nel lessico comune come sinonimo di disfatta, tanto che se è notata la ricomparsa in qualche titolo di giornale in occasione della recente sconfitta della nazionale di calcio.

In realtà, ma bisognerebbe chiedersi quanto ne sappiano le giovani generazioni, il problema di Caporetto è bell’e risolto in ottica militare; anche grazie ai materiali raccolti dalla Commissione d’inchiesta insediata nel 1918, un corpus di testimonianze di più di mille militari di diverso grado, dai generali ai soldati semplici, al quale ha attinto la generazione di storici (Forcella, Monticone, Rochat, Isnenghi) cui va il merito di aver riaperto il discorso a partire dagli anni Sessanta. Per dire nel modo più spiccio si è trattato del crollo di un esercito di massa tenuto insieme con la repressione (Labanca), la caduta di un edificio tarlato, eroso da stanchezza, disaffezione, faciloneria dei comandanti e pessima qualità dei rincalzi (Alessandro Barbero, Caporetto, Laterza, 2017). Da un lato truppe spossate, demotivate, mal comandate, dall’altro un’armata altrettanto sfinita (e pienamente consapevole che una nuova “Bainsizza”, l’undicesima battaglia dell’Isonzo, avrebbe stavolta aperto una breccia verso Lubiana) rinforzata però dall’apporto di forze fresche, le divisioni tedesche del generale von Below organizzate nella XIV armata, capaci di padroneggiare una tecnica d’attacco ancora sconosciuta sul fronte isontino, ma messa utilmente in atto qualche mese prima sul fronte russo. Tattica le cui caratteristiche salienti erano la concentrazione del fuoco d’artiglieria e dei proiettili a gas contro settori circoscritti delle linee nemiche e la rapida infiltrazione nei varchi così aperti di truppe d‘assalto armate di bombe a mano e mitragliatrici leggere organizzate in piccole squadre guidate da ufficiali con massima autonomia decisionale, con l’obiettivo di penetrare nelle retrovie per tagliare le comunicazioni, isolare le formazioni nemiche, seminare il caos. Insomma l’intraprendenza di truppe motivate che anticipano, per quanto era alla portata degli eserciti del ’17, forme di Blitzkrieg di contro ad una massa burocratizzata e scarsamente reattiva com’era l’esercito italiano di Cadorna, capriccioso signore assoluto pronto a silurare chi non eseguiva gli ordini con obbedienza totale, spingendo così all’attendismo e alla passività (cfr. Marco Mondini, Il Capo. La grande guerra del generale Cadorna, il Mulino, 2017).

Se ci mettiamo anche la difficoltà a ridisegnare uno schieramento offensivo in forma difensiva, per contrastare un attacco del tutto previsto, ne viene fuori appunto Caporetto. Peraltro, guardando alla sconfitta di ottobre sulla scala della Grande Guerra, lo sfondamento austro-tedesco e il ripiegamento italiano perde tutta la sua straordinarietà. Per due volte, battaglia della Marna e ‘Kaiserchlacht’ (marzo 1918), i francesi ripiegano verso ovest a 150 chilometri circa dal confine franco-tedesco (più o meno la distanza che separa Caporetto da San Donà di Piave), per non parlare della perdita e della riconquista della Galizia orientale da parte degli austriaci nel 1914-15, o dell’occupazione della Serbia o della conquista di Bucarest nel 1916. Va ancora aggiunto che la ritirata fu poi molto meno confusa di quanto racconta Hemingway, che seppe di Caporetto solo per sentito dire, se l’esercito italiano fu in grado di prodursi in una battaglia d’arresto che fermò sul Piave e sul Grappa l’offensiva degli austro-tedeschi.

Dunque perché Caporetto ha acquistato contorni così tragici nel discorso pubblico e nella memoria collettiva, se è tanto facile ridimensionarla in prospettiva militare? È qui mi pare il vero problema. E per sciogliere il quale non è possibile trascurare una serie di concause che hanno a che fare con la storia stessa e le fragilità del giovane stato italiano. Nell’immediato dopoguerra Caporetto divenne arma impropria dello scontro politico ed esagerarne l’importanza fu utile strategia da parte degli ex-neutralisti, i vincitori delle elezioni del ’19, che ne fecero il simbolo di una guerra imposta a un Paese che voleva la pace, mentre sul fronte opposto si spacciava Caporetto per il capolavoro del sovversivismo e del disfattismo, quell’anti-Italia da abbattere a manganellate: maniere l’una e l’altra per “incistare” Caporetto nel discorso pubblico e farlo diventare metafora. Anche il regime in camicia nera se ne servì, per colpire la vecchia Italia di Giolitti, il bla-bla dei politicanti faccendieri, il sistema parlamentare e presentare nel segno di Vittorio Veneto quell’italiano nuovo, duro e marziale, l’italiano del “voi” e del passo romano, che Mussolini ambiva forgiare. Inoltre, da parte di un’Italia in crisi di autostima (allora come oggi) e che voleva conquistarsi il rispetto di un’Europa di cui avvertiva – si rilegga Il piccolo patriota padovano, racconto mensile del Cuore – il sorrisetto di superiorità, Caporetto fu subita sentito come un dito sulla piaga: non uno nei normali alti e bassi di una guerra, ma l’evento che mostrava limiti e le manchevolezze del processo di unificazione nazionale, compiuto in maniera che già Mazzini aveva criticato nel suo “testamento morale”, la lettera a Ferretti del 1871. Si aggiunga ancora lo sconcerto di fronte all’inattesa sconfitta da parte della “classe dei colti”, contigua, nell’Italia arretrata del primo Novecento, agli ambiti del potere: coloro che avevano voluto con tanto entusiasmo la guerra, provavano ora, dopo tante battaglie vinte o quasi-vinte, l’umiliazione e la vergogna dell’insuccesso che riportava indietro a Custoza e a Lissa tradendo l’epica garibaldina, e ne sentivano l’amarezza in modo esagerato, come il fallimento di una vita, con uno strascico anche nel discorso pubblico, che erano in fondo loro ad amministrare.

In un recente convegno alla Nouvelle Sorbonne di Parigi, su Caporetto appunto, alcune brave studiose (Manuela Bertone, Francesca Belviso, Maria Pia De Paulis-Dalembert) hanno mostrato in maniera inoppugnabile le tracce profonde del trauma di Caporetto nella scrittura di Gadda, Marinetti e Soffici. Il cielo sembrava crollare sulla testa di questi emblematici intellettuali in divisa che vedevano in Caporetto, oltre che la smentita del loro ottimistico entusiasmo interventista, la materializzazione del peggiore degli incubi, quello di un’Italia debole e disprezzata. Questo, se vogliamo, il macro-contesto ideologico-culturale della leggenda nera di Caporetto, che è necessario decostruire – lo stanno facendo bene gli storici che hanno risposto all’“appello” dell’anniversario -, collocando l’evento nella giusta luce per leggervi non solo una pagina di cronaca militare, ma anche una “figura” rivelatrice di aspetti complessi e ambivalenti del carattere nazionale e della storia del Paese.