Carducci politico

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di Walter Chiereghin

 

«Troppi versi ho io fatto, e troppo poco

ne sono contento: vorrei avere

adoperato meglio il mio tempo»

  1. Carducci, Confessioni e battaglie, 1885

 

Pubblicato dall’editrice Aracne negli ultimi giorni del 2020, Spade, serti e diademi. Carducci fra poesia e impegno civile è un importante volume che raccoglie tredici saggi, in parte inediti, in parte rivisitati, frutto di ricerche di oltre vent’anni di Alberto Brambilla, dal 1996 attivo in seno al Comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle Opere di Carducci. Profondo conoscitore, ovviamente, dell’opera del poeta maremmano, e tuttavia consapevole di rivolgersi ad un pubblico largamente minoritario, Brambilla è da tempo rassegnato a «prendere atto che oggi, ma non certo solo da oggi, la posizione di Carducci in un ipotetico Parnaso dei nostri gusti poetici è di certo molto mutata. Ciò non stupisce più che tanto: dopo gli ossi di seppia di Montale o le pietre aride e prosciugate di Ungaretti, la poesia carducciana appare alla nostra sensibilità eccessivamente ricca e paludata; ci sfuggono quasi sempre i rimandi eruditi, le fonti e a volte persino i protagonisti dei componimenti» (pp. 283-284). Impossibile negarlo, anche per le generazioni oggi più anziane, che certo in molti casi ricordano ancora numerosi suoi versi che nei loro remoti anni di scuola furono coartati a imparare a memoria. Tuttavia il poeta è stato, nella seconda metà dell’Ottocento, la figura centrale della cultura italiana, in ambito letterario e non solo: dalla sua cattedra all’Università di Bologna, dai suoi infiammati discorsi celebrativi, da quelli parlamentari, dalle polemiche sui giornali, dai suoi saggi, dal suo alluvionale epistolario, persino dalle epigrafi da lui dettate, ma in primo luogo e soprattutto dai suoi versi si può ricavare un’immagine articolata e nitida di quello che fu l’Italia che egli osservò con intensa partecipazione, indagandone i presupposti storici e culturali e indicando – non senza contraddizioni e ripensamenti – gli esiti che egli avrebbe auspicato per il presente e per il futuro del Paese approdato, sotto gli occhi della sua generazione, a un assetto statuale unitario.

Per tracciare un profilo della parabola carducciana, i saggi di Brambilla prendono in considerazione soprattutto l’evolversi del pensiero politico e della testimonianza civile del personaggio, dagli antefatti dell’età formativa, di cui si occupa soltanto il primo dei saggi raccolti in volume, Note sulla prima formazione di Carducci, al lungo periodo dell’egemonia dell’intellettuale sulla scena culturale e civile italiana, che si prolungò fino agli anni tra i due secoli, quelli del suo crepuscolo, quando il poeta era già, sotto molti aspetti, un sopravvissuto a se stesso, nonostante il riconoscimento del Nobel pochi mesi prima della scomparsa.

L’itinerario formativo poté valersi, nelle sue fasi iniziali a Bolgheri, dell’apporto che gli recarono i famigliari: dalla nonna paterna, l’indimenticabile “signora Lucia”(Galleni) ritratta in Davanti San Guido proprio nell’atto di raccontare una favola al piccolo Giosue con «la favella toscana […] co ’l mesto accento de la Versilia / che nel cuor mi sta», alla madre, Ildegonda Celli, che lo aveva iniziato alla lettura con i versi di Alfieri e di Berchet, ma soprattutto al padre. Il dottor Michele Carducci, medico condotto a Bolgheri, in Maremma, una solida cultura classica prima della laurea in Medicina a Pisa, affiliato alla Carboneria, processato e confinato per la sua partecipazione ai moti di Romagna del 1831, aveva seguito personalmente la prima formazione del figlio, esortandolo a incontrare la poesia italiana, ma anche poesia e prosa latine ed aprendogli la sua biblioteca, «varia nella sua apparente povertà, pur non essendo certo paragonabile a quella, certo più nota, di Monaldo Leopardi, [la quale] diviene tuttavia decisiva per il piccolo Giosue che riesce a trarne profitto, coltivando le due passioni della sua vita, la letteratura (soprattutto la poesia) e la storia; e perciò essa costituisce davvero una sorta di nucleo generatore» (p. 53).

Dopo i moti del ’48, cui aveva personalmente partecipato anche il padre, e a causa della successiva restaurazione, i Carducci si trasferirono a Firenze, dove l’adolescente Giosue frequentò con profitto la “scuola di Umanità” degli Scolopi, approfondendo la conoscenza di classici greci e latini, ma anche rivolgendosi alle biblioteche per una precoce bulimia di letture che lo accostarono anche a varie altre letterature europee. A lato delle letture e dello studio dei classici iniziano pure le prime produzioni di versi, di traduzioni e di saggi, che «appaiono frenetici e a volte incerti, indirizzati verso più direzioni, spesso gonfi di retorica, ma già nella consapevolezza di una provvidenziale continuità della tradizione greco-latina e poi italiana» (p. 57). Dall’avvertimento di questa continuità, confermata poi dagli studi alla Scuola Normale di Pisa e da quelli di tutta una vita professionalmente impegnata nella scuola e in ambito accademico, scaturirà la sua visione civile, che porrà in relazione tale genesi con le vicende del Risorgimento e della nuova Italia che, dopo l’unificazione del Paese avviata nel 1861, costituì l’ambientazione storica del suo impegno di intellettuale.

Fin dagli esordi sulla carta stampata, con la vis polemica che lo contraddistinse, Carducci fu politicamente militante dapprima in un ambito democratico-repubblicano e fortemente anticlericale – corrispondente anche alla sua reazione antiromantica in letteratura – e in seguito, a partire dalla “conversione” in senso monarchico, derivante (secondo una vulgata sentimentale suggerita esplicitamente dal poeta stesso) dall’incontro bolognese con la regina Margherita di Savoia intervenuto nel novembre 1878.

In un saggio in cui attentamente si sofferma Brambilla viene presa in considerazione un’impresa editoriale del Carducci della tarda maturità: i due corposi volumi delle Letture del Risorgimento italiano, pubblicati da Zanichelli nel 1896-97, che in qualche modo danno ragione dell’adesione del poeta – e più dello storico – alla ineluttabile forma statuale monarchica, la sola in grado di assicurare forza e ruolo al fragile neonato Stato nazionale. Nelle quasi mille pagine dell’opera, che propone testi in prosa di autori lungo un intervallo temporale che parte dal 1749 per concludersi con la morte di Garibaldi nel 1882, oltre che nella lunga introduzione del curatore, si precisa una visione storica del Risorgimento che affonda le sue radici nel periodo che ha preparato la rivoluzione francese, si sviluppa con la dialettica teorica e storica che ha accompagnato l’unificazione per trovare infine sintesi nell’Unità nazionale patrocinata e infine retta dalla monarchia sabauda, erede di una illustre tradizione militare. Dalla scelta di autori, testi e argomenti « ben si può cogliere la complessità del discorso carducciano, in cui lingua, cultura, economia, filosofia, politica sono fili mossi dalla stessa mano che intesse abilmente un arazzo storico assai articolato» (p. 158), ma anche la razionalizzazione dell’itinerario ideologico del Carducci dagli anni giovanili votati alla visione repubblicana di Mazzini a quelli del senatore del Regno, sostenitore di Francesco Crispi.

In entrambe le due fasi della sua visione politica – democratico-repubblicana e monarchica – rimane saldo l’assunto culturale da cui si sviluppa nel tempo la sua contingente elaborazione: «ribadire un nesso culturale fondamentale, la continuità fra cultura greco–latina e quella italiana, geneticamente rappresentata da Foscolo, a sua volta fondatore – attraverso i Sepolcri – di quella religione della memoria che aveva il suo nucleo monumentale a Santa Croce, ma poi si ramificava nello spazio e nel tempo, scendendo agli eroi omerici» (p. 313). Confrontare così illustri antecedenti alle more di una politica percepita come stagnante e ricettacolo di scandali, a riforme sempre procrastinate, a corruzione e trasformismi fornì un’ispirazione sempre elevata alla sua retorica che, pure tra contraddizioni e ripensamenti, finì per conferirgli il ruolo di vate della nazione.

Se Carducci fu senza dubbio un poeta civile, le circostanze della vita e gli impegni famigliari gli impedirono invece di essere un poeta-soldato, come fu invece Nievo – suo quasi coetaneo, giovane colonnello garibaldino caduto in mare durante l’impresa dei Mille – o anche come fu De Amicis, ufficiale e combattente a Custoza nel 1866. Brambilla ritorna più volte, nel volume di cui stiamo parlando, a quest’assenza del poeta toscano dai campi di battaglia del Risorgimento, cosa che egli visse come un autentico cruccio, che probabilmente però lo indusse a divenire un combattente non già con le armi, ma con l’azione intellettuale (da cui il titolo del libro, Spade, serti – ossia l’impegno poetico – e diademi, con riferimento alla regina Margherita).

Sarebbe impossibile organizzare una riflessione esauriente sulla visione politica del poeta toscano senza concentrare l’attenzione sull’irredentismo giuliano e trentino e difatti Brambilla, profondo conoscitore anche della cultura delle “terre irredente” e di personalità di prima grandezza quali il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, il giovanissimo Scipio Slataper e lo scrittore dalmato Nicolò Tommaseo, vi dedica almeno quattro dei saggi che compongono il volume.

Carducci aveva visitato Trieste e Capodistria insieme a Lidia – alias Carolina Cristofori, moglie di un garibaldino, alto ufficiale dell’esercito, Domenico Piva – tra il 7 e l’11 luglio 1878, per quella che avrebbe dovuto essere un’escursione romantica e riservata e che invece si trasformò in un evento pubblico e in un deferente omaggio al poeta da parte di un nutrito gruppo di intellettuali triestini (si veda Il Ponte rosso n. 52, https://www.ilponterosso.eu/2020/01/12/il-vate-e-la-pantera-a-trieste/ ). In quella circostanza Carducci ebbe modo di visitare il castello di Miramare, il cenotafio di Winckelmann e Capodistria e da quell’incontro con la città – all’epoca “oltre i confini” nazionali – nacquero due Odi barbare: Miramar appunto, pubblicata appena nel 1889, e Saluto italico, quest’ultima pubblicata invece fin dal 1879 e destinata a infiammare gli animi degli irredentisti della città giuliana. Nonostante gli inviti e le rassicurazioni che furono scambiati alla stazione tra il poeta e i suoi accompagnatori triestini, Carducci non rimise più piede a Trieste, il che però non impedì che si mantenesse e anzi crescesse la considerazione nei confronti del poeta, che tanto si sarebbe speso per la causa irredentista anche negli anni successivi a quella breve visita. Fu un gesto di riconoscente affetto, ma anche la segnalazione di un preciso indirizzo di carattere politico, che indusse il Comune, fin dal 17 febbraio 1907, il giorno successivo alla sua scomparsa, a modificare la toponomastica dedicando al nome del poeta la Via del Torrente, tra le più importanti arterie della città.

Due eventi segnarono, nel 1882, una decisa presa di posizione in senso ancora più fortemente irredentistico da parte del professore di Bologna: l’adesione del Regno d’Italia al patto difensivo con Austria e Germania passato alla storia sotto il nome di Triplice Alleanza, sottoscritta a Vienna il 20 maggio e la condanna a morte di Guglielmo Oberdan che fu eseguita a Trieste il 20 dicembre. Soprattutto in quest’ultimo caso, Carducci si mise alla testa di un movimento di spontanea protesta che, nato a Bologna, si estese a molte altre aree, potendo contare sull’adesione degli sparuti gruppi democratici e repubblicani, ma anche sullo scontento dei nazionalisti che avevano visto con molta perplessità ed amarezza l’adesione del Paese alla Triplice Alleanza, al fianco di quell’Impero austroungarico che era stato il nemico per antonomasia per tutto il Risorgimento e che ancora si ripresentava alle cronache come spietato esecutore di una sentenza pronunciata in esito a un processo a porte chiuse, nei confronti di un giovane patriota del tutto incolpevole di un regicidio che, comunque, non aveva portato ad esecuzione. Vi fu chi ritenne «che dell’esecuzione capitale dell’eroico giovine si sarebbe assai meno parlato in Italia, se a capo della manifestazione patriottica non vi fosse stato un nome così illustre e significativo come quello del Carducci» (Albano Sorbelli, Carducci e Oberdan, Zanichelli 1916). La sua ferma riprovazione della condanna implicava anche un’altrettanto decisa opposizione alla politica estera del governo italiano, contraddicendo almeno in parte il pragmatismo che aveva determinato l’adesione all’opzione monarchica. Corollario allo sdegno per l’esecuzione capitale del giovane patriota è l’intransigente rivendicazione all’Italia delle terre ancora escluse dal territorio nazionale, oltre all’edificazione di un culto patriottico di Oberdan come martire, consapevole e determinato a sacrificarsi per il conseguimento del fine annessionistico delle terre irredente al Regno d’Italia. Scriveva infatti Carducci nella prefazione a Memorie di Guglielmo Oberdan, un librino da lui voluto ed affidato a Menotti Delfino con la collaborazione dei giovani Luigi Dobrilla e Giacomo Venezian: «… noi in Guglielmo Oberdan non proseguiamo d’onore un’intenzione micidiale – dov’è il regicidio? – sì un deliberato e maturato proposito di sagrifizio, […] Dicevano che a Trieste e all’Istria mancava un martire. Ecco, il martire è venuto». Il librino venne sequestrato e distrutto; se ne salvarono tuttavia non poche copie, per la felicità dei bibliofili e dei librai antiquari.

La visione storica e l’azione politica del Carducci costituiscono parte di gran lunga prevalente nei saggi che compongono il volume di Brambilla; l’immagine che complessivamente ne emerge è quella di un intellettuale impegnato ad individuare i fili che collegano il presente nel quale si è trovato ad operare con il passato remoto e con quello più recente, risorgimentale, della nazione, per trarne indicazioni sulle prospettive da perseguire. Seguendo la scia del pensiero di Mazzini, il poeta di fece esplicitamente propugnatore e predicatore di una «religione della patria» (l’espressione è sua), fondata su un nazionalismo spinto e aggressivo che troverà largo seguito tra i suoi contemporanei e – verrebbe da dire “purtroppo” – tra i suoi posteri, che individuarono in Gabriele D’Annunzio, poeta-soldato, più che nel socialista Giovanni Pascoli, il più degno erede del Vate. Con quanto ne seguì.

 

 

Alberto Brambilla

Spade, serti e diademi

Carducci fra poesia

e impegno civile

Aracne editrice, 2020

  1. 396, euro 20,00