Cassandra muta

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Intellettuali e potere nell’Italia senza verità

di Walter Chiereghin

 

Prende le mosse da lontano, come di solito fa (o dovrebbe fare) un intellettuale consapevole del fatto che soltanto una conoscenza approfondita del passato – o, al limite, dei miti – può fornirgli gli strumenti per interpretare il presente e quelli per prefigurare i possibili futuri. Allora ecco catapultato il lettore nei poemi omerici, nella mitologia della guerra di Troia e dei suoi personaggi, e tra essi Cassandra, che ha avuto da Febo il dono della profezia, nella fase in cui il dio la corteggiava, assieme, quando lei lo respinse, alla punizione di non essere creduta. Ciononostante Cassandra parla, per impedire al suo popolo di trascinare il cavallo fatale di Odisseo entro le mura della città, parla senza che nessuno le desse retta, condannando con tale incredulità la città di Priamo alla rovina. Cassandra la ritroviamo fatta schiava, sul carro del vincitore, nell’Agamennone di Eschilo, questa volta muta, ed è da tale potente metafora che prende le mosse l’autore di questo importante saggio “dedicato al silenzio critico nell’Italia di oggi”.

Tomaso Montanari, fiorentino, classe 1971, è ordinario di Storia dell’Arte a Napoli, specialista dell’età barocca, ma la sua attività non si limita all’ambito accademico, essendo anche apprezzato (da molti) editorialista e blogger; ha scritto su importanti quotidiani, quali Il Fatto quotidiano, Il Corriere del Mezzogiorno, La Repubblica. Ha collaborato anche con il Corriere Fiorentino, il dorso locale del Corriere della Sera, dal quale fu licenziato nel 2013 per aver pubblicato un saggio, Le pietre e il popolo, un capitolo del quale criticava l’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Per “il suo rapporto con la cultura e con la verità”. È presidente, dallo scorso marzo, del movimento “Libertà e Giustizia”, il che in qualche modo dà ragione dei capitoli iniziali del volumetto, che prende le mosse dal referendum sulle modifiche costituzionali, sonoramente bocciate dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016, per analizzare la genesi di quell’evento e i comportamenti degli intellettuali schierati, come in gran parte sono stati, a favore del Sì. Montanari fa osservare preliminarmente che la richiesta di cambiamenti all’assetto costituzionale non deriva direttamente dall’espressione di una volontà popolare, ma invece è frutto della volontà del presidente del Consiglio allora in carica di incrementare i poteri dell’esecutivo riducendo quelli del Parlamento. La posta della partita era grossa, e non si risparmiarono mezzi per influire sul risultato. Gli intellettuali, in larga misura, scelsero di salire sul carro del potere, anche se ovviamente alcuni di essi militarono attivamente nel campo opposto, pur essendo una sparuta minoranza, ma non si può ignorare il ruolo avuto da personalità come Gustavo Zagrebelsky o Stefano Rodotà o Salvatore Settis nella contesa; in mezzo, una folta schiera di silenti che preferirono astenersi dall’esprimere un orientamento, rinunciando “a ogni esercizio della critica. Cioè all’essenza stessa della funzione intellettuale” (p. 20).

Nel passare a una disamina riguardante gli organi d’informazione italiani, l’autore si toglie preliminarmente dalla scarpa un sassolino che lo riguarda personalmente, pubblicando la lettera con la quale fu messo alla porta dal Corriere Fiorentino, in quanto reo di aver messo alla berlina Renzi, allora sindaco del capoluogo toscano sostenuto “con imbarazzante entusiasmo” dal quotidiano con la pubblicazione del volume Le pietre e il popolo, del quale viene riportato un brano relativo al risibile tentativo del sindaco Renzi di riportare alla luce i resti della Battaglia di Anghiari di Leonardo, sottostante (e in condizioni che egli riteneva da risultare leggibile) all’affresco del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio.

L’esame critico riguardante i giornali prende sempre come riferimento la vicenda della mancata riforma costituzionale, per rilevare come, anche in quel caso, la grande maggioranza dei principali organi d’informazione fosse apertamente schierato in favore del Sì e quindi “in altre parole, in quella circostanza, di fronte all’opinione pubblica italiana ha trionfato il pensiero unico per cui non c’è sostanzialmente alternativa allo stato delle cose”. Nemmeno la clamorosa sconfessione del risultato del referendum, come purtroppo continuiamo a constatare, schioda gran parte della stampa italiana da un atteggiamento che, contrariamente a quello largamente presente nell’opinione pubblica che reclama una discontinuità nei comportamenti del potere politico, lo blandisce mediante una sua “canonizzazione permanente”. In larga misura, il limite dei grandi organi d’informazione “è che essi immaginano se stessi più come strumenti di informazione di una comunità di riferimento che non come strumenti di conoscenza critica” (p. 48). Diretta conseguenza di ciò è la crescente difficoltà degli intellettuali, di quelli almeno che non intendono lasciare a chi ha il monopolio della forza anche quello della verità, a reperire spazi che consentano loro di raggiungere una vasta platea di cittadini. Nei rari casi in cui ciò può invece avvenire, magari perché l’intellettuale ha dalla sua un incredibile successo commerciale, com’è stato per Saviano, o un indiscutibile prestigio scientifico, come per Settis, scatta un meccanismo di delegittimazione, come quando Franceschini (Ministro dei Beni culturali!) affermava a proposito di Saviano «Mi sembra assolutamente fuori luogo associare l’autorevolezza acquisita in altri campi per emettere sentenze senza fondamento», mentre Renzi, a proposito di Settis si permetteva la battuta «archeologi travestiti da costituzionalisti». Entrambe queste citazioni rivelano il malcelato desiderio che passi nel sentire comune il concetto che la politica sia !una cosa per i politici, i politologi, i commentatori politici dei giornali. Una roba da esperti: da specialisti” (p. 56). È di tutta evidenza che una visione di questo genere presuppone un’immagine dell’intellettuale come puro specialista, non autorizzato a pronunciare verbo al di fuori del proprio ambito si specializzazione e quindi a cessare di essere un intellettuale, che ha abdicato al suo principale diritto / dovere, quello cioè di esercitare una funzione di critica.

L’università italiana non poteva passare indenne nell’analisi sconfortante di Montanari e difatti il capitolo che più direttamente la riguarda si apre con un fatto di cronaca, di cronaca giudiziaria per la precisione, relativo alla sentenza emessa il 15 giugno dello scorso anno da un tribunale della nostra Repubblica, con la quale veniva condannata, con la condizionale, una ragazza per alcuni contenuti della sua tesi di laurea, relativa al movimento no Tav della Val di Susa, che, stando ai giudici, dimostrerebbero, causa l’assenza della presa di distanza dai contenuti della protesta, un concorso morale della laureanda ai reati compiuti durante la manifestazione. La vicenda è passata sotto silenzio, nessuno o quasi, nelle università italiane, ha denunciato o neanche ipotizzato il contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, che promuove la ricerca. “Ma le università non hanno taciuto per distrazione o per calcolo. Hanno taciuto perché, da molti anni, stanno esse stesse reprimendo il loro dissenso interno, trasformandosi in scuole di conformismo e di opportunismo” (p. 60). Spesso i codici etici degli atenei, con i riferimenti all’immagine e al prestigio dell’istituzione, offrono uno strumento normativo alla repressione del dissenso, in armonia con la progressiva trasformazione in aziende degli istituti universitari, secondo una prassi che implica la “verticalizzazione autoritaria, l’arbitrio degli organi monocratici (direttori di dipartimento e rettori), la prevalenza dei consigli di amministrazione sui senati accademici e la loro composizione esterna agli atenei” (p. 62). Uniti a altri fenomeni emergenti, quali il macroscopico sfruttamento dei precari e le difficoltà connesse con la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, la corsa alla “professionalizzazione” anche in corsi di laurea per loro natura non professionalizzanti, si innestano naturalmente su consolidati vizi preesistenti all’attuale precaria situazione, primi tra tutti la suddivisione in parrocchie e parrocchiette per gestire tra sodali il potere accademico e il conformismo causato spesso dal rapporto servile tra maestri e allievi. A tale stato di cose si è sovrapposta inoltre una visione assimilabile a quella che ispirò la legge “Sblocca Italia”, esaltando la dinamicità del “fare” contrapposta dai lacci e laccioli imposti dalle normative a salvaguardia di un codice del “come fare”, quasi che i problemi che frenano la ripresa del Paese non fossero, per dire, la corruzione endemica, ma invece le eccessive preoccupazioni etiche.

In un Paese dove l’analfabetismo funzionale, l’incapacità cioè di riferire efficacemente i contenuti di un testo scritto è equivalente al 47% della popolazione è evidente che si pone con drammaticità l’esigenza di promozione della cultura, ma il non molto che si fa in questo senso sembra ispirato da una concezione di stampo neoliberista, che nei beni culturali identifica soprattutto un supporto per incentivare il turismo, una fonte di denaro anziché uno strumento di promozione civile dei cittadini, che in effetti più che tali sono considerati consumatori. Nell’aneddotica citata da Montanari assume particolare rilievo la montatura mediatica che si è voluta creare attorno a un’improvvida chiusura al pubblico del Colosseo dovuta a un’assemblea sindacale dei dipendenti (annunciata con largo anticipo e del tutto legittima, che ha portato alla chiusura solo perché nessuno si era occupato di richiedere il personale sostitutivo per tempo), cui fece seguito un decreto che statuiva per i beni culturali lo status di «servizio pubblico essenziale», con le implicazioni sindacali e penali che ciò implica. Un anno più tardi lo stesso Colosseo venne parzialmente chiuso al pubblico per due giorni al fine di consentire a un privato, Diego Della Valle, che aveva sponsorizzato il restauro, di farvi una festa esclusiva, ad invito.

Ma la politica dei Beni culturali è tutta intrisa di commistioni tra tutela (scarsa) e promozione turistica (avida e ignorante), che intende allargare il campo d’azione per sfruttare ogni occasione per spremere soldi ai consumatori di bocca buona, che difatti possono pensare di utilizzare siti monumentali, come ambientazioni (loro le chiamano location) per sagre strapaesane con figuranti in costume medievale, per fungere da showroom del Made in Italy o per più private e costose occasioni, quali matrimoni o addii al celibato. Osserva Montanari, in margine alla descrizione di tali desolanti e sempre più frequenti episodi: “è insopportabile sentirsi dire che ogni giorno che al «popolo» si deve necessariamente ammannire questo sterile specchio del presente. Questa continua corsa al ribasso, questo tuffo nel trash come unica dimensione possibile per la comunicazione di massa, è l’assioma che ha distrutto la televisione italiana e il servizio pubblico” (p. 89).

Da una critica così serrata all’organizzazione della cultura in Italia non poteva mancare ovviamente un capitolo dedicato alla scuola e in esso l’autore si sofferma confrontando impietosamente la scuola come l’aveva pensata e posta in essere don Milani coi contenuti della cosiddetta “buona scuola” d’ispirazione renziana: per semplificare, il confronto è tra un modello Barbiana e un modello Briatore, “un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola, due idee opposte di società,

due idee opposte del futuro della democrazia” (p. 111).

In un quadro così desolante qual è il presente del rapporto tra potere e intellettuali, cosa resta da fare a questi ultimi? Nel 1911 Umberto Saba si era posto un’analoga domanda riguardante i poeti, e la risposta che si diede era (apparentemente) semplice: “Ai poeti rimane da fare la poesia onesta”. Dopo più di un secolo, rivolgendo a se stesso la domanda su cosa resti da fare agli intellettuali nell’Italia di oggi, Tomaso Montanari si risponde che resta da fare il mestiere di sempre, quello di utilizzare il metodo di osservazione critica della realtà e soprattutto dell’agire del potere, cercando di procurarsi e mantenere in efficienza gli strumenti necessari per farlo. Primo tra essi, praticare la verità, seguendo l’esempio di Pasolini, anche essendo consapevoli che”ricerca scientifica, ricerca morale, ricerca politica sono strettamente collegate e sfociano in una pratica intollerabile per il potere: dire la verità” (p. 123). A costo di essere irridi dal potere che definisce “gufi” i disobbedienti all’omologazione culturale. Col conforto di sapere che i gufi riescono a vedere nella notte, per quanto buia essa sia.