C’è un po’ di Trieste in Blade Runner 2049

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Intervista ad Alessandra Querzola

di Pierpaolo De Pazzi

 

Alessandra Querzola, set decorator, triestina, lavora da anni in grandi produzioni italiane e internazionali. Tra i film con cui ha collaborato, a svariato titolo, ci sono gli Oscar Mediterraneo e Il paziente inglese, e poi Avengers: Age of Ultron, Skyfall, Quantum of Solace, La guerra di Charlie Wilson, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Gangs of New York, Sogno di una notte di mezz’estate, il remake di Ben Hur, The Hills Have Eyes, Nora, Legionnaire, La chiave. E, naturalmente, Blade Runner 2049.

 

Qual è il lavoro del “set decorator”?

Si parte da un “guscio”, un contenitore, una location reale o un set che è ricostruito in teatro: comunque deve essere arredato. Non è un lavoro di Interior design, devi dare spessore al personaggio. Tutti gli oggetti del set, l’arredamento, tutto serve a disegnare il personaggio, il suo passato, il presente, le scelte che potrà fare in futuro. Facciamo tutto: lampade, pavimenti, oggetti, mobili, bicchieri, posate, anche quello che sta nel piatto o in frigorifero.

Devi avere chiaro che stai arredando la casa di qualcuno che non esiste, ma che anzi viene creato anche dagli oggetti che scegli per lui e dalle possibilità che gli dai di muoversi nel set. Devi dare una casa al personaggio, una base per l’attore che lo interpreta.

Questo è un lavoro di totale empatia, non puoi essere distaccato: come l’attore che crea il personaggio, così il decorator soffre perché rincorre continuamente l’oggetto che più lo richiama.

Partite dal copione, come l’attore, per costruire il personaggio?

No, partiamo già dalle immagini, o perlomeno da quello che si chiama il mood. All’inizio della lavorazione del film, ci si incontra con lo staff e con il Production Designer e si comincia a scambiarsi immagini, cosa oggi è molto più facile di vent’anni fa grazie al digitale e a Internet. Così puoi trovare quello che per te è il mood, guidato dall’empatia che ti dice cosa è giusto e cosa non è adatto. Non c’è nessun sistema razionale che ti possa dire che cosa devi mettere in un set. Quando vedi l’oggetto giusto, sai che è quello giusto, lo devi saper riconoscere. Così il Set decoration è il reparto che nella lavorazione ha più stress: cerchi con angoscia gli oggetti giusti, con i giusti raccordi di colore, ma anche se li trovi a catalogo magari sono stati venduti il giorno prima. Impari a lavorare con ansia.

Esiste poi, ovvio, una dimensione di budget, ma non da quello si deve partire, bensì da quello che è giusto. Gli altri vincoli che hai li trovi nel copione, nell’azione prevista nella scena. Non puoi arredare un set dove gli attori non possano muoversi…

Quali sono state le tue esperienze formative?

A Trieste ho studiato al Nordio, una scuola d’arte con delle connotazioni molto speciali, dove ho avuto come maestri Alessandro Psacaropulo, Antenore Schiavon, e soprattutto il mio professore di Plastica, Misticone, allora giovanissimo, che mi ha insegnato a comporre pieni e vuoti nello spazio, in modo empatico. Poi sono andata a Venezia, all’Accademia di belle arti. Studi che mi sono stati utili molto dopo. Inizialmente fai il lavoro da galoppino. Poi con gli anni tutte queste cose ti tornano, come delle ondate, e puoi cominciare ad attingere a quello che è già dentro di te.

E quando hai iniziato a lavorare?

Nel 1979, ma non nel cinema, a teatro: mi son fatta un bagaglio di esperienza che dopo mi è stato utile. Ho iniziato a lavorare alla Fenice di Venezia, dove lavorava il mio professore di Scenotecnica. Finché studiavo ho fatto altri lavoretti a Venezia. Ho fatto incontri fantastici, ad esempio ho lavorato con Carolyn Carlson, per lo spettacolo Undici Onde. Io volevo solo lavorare, e queste esperienze le ho immagazzinate per così dire nell’inconscio, anche perché erano estemporanee, duravano una settimana poi era finito.

Poi è venuto il film di Tinto Brass, La chiave: ho fatto l’assistente costumista, per una serie di avvenimenti fortuiti, perché ero entrata nelle simpatie di Angelina, la famosa sarta della Vitti, lavorando con lei in un paio di occasioni. Mi voleva come assistente costumista. In pratica piegavo i vestiti quando le comparse si spogliavano. Lei mi volle a Roma, e così, di colpo, mi sono trovata nella capitale, a Monteverde Nuovo, ospite a casa sua. Ricordo che era estate e faceva un caldo infernale, perché per asciugare prima i vestiti di scena teneva acceso il riscaldamento!

Sono rimasta a Roma, lavorando per quattro o cinque anni per i teatri “off”, fenomeno che era esploso proprio all’inizio degli anni ‘80. Ho avuto la fortuna di lavorare con Gianfranco Varetto, Leo De Bernardinis, e altri registi di questo teatro, per poi arrivare alla TV. Ho fatto Indietro tutta, con Renzo Arbore e per un paio d’anni questo tipo di televisione. Non mi piaceva, mi sono ribellata e ho voluto fare un viaggio lungo, di un anno. Quando sono tornata parlavo molto meglio l’inglese, e ho cominciato a fare cinema. E così siamo nel 1991.

Da allora lavori nel cinema con produzioni internazionali?

Sì, da allora ho fatto quello, con poche produzioni italiane. Avevo dalla mia parte la lingua parlata bene, una possibilità in più. Comunque ho sempre fatto tutto quello che di accettabile mi hanno proposto, ed ero contenta anche di cosiddette produzioni spazzatura, perché per un lavoratore dello spettacolo l’importante è lavorare, se ti fermi rischi di rimanere fuori.

Dal ‘91 ho fatto dei film inglesi, poi Le avventure del giovane Indiana Jones: un lavoro bellissimo, con George Lucas, una fantastica serie televisiva che ho iniziato come assistente all’arredamento. Poi siccome ero incinta mi hanno spostato nel reparto costumi, che è più calmo. Così ho lavorato per più di un anno a Londra, tornando a casa per la nascita di mia figlia. Qualche mese dopo ho ripreso a Roma, con Norman Jewison, il regista di uno dei miei film preferiti, Jesus Christ Superstar. Girammo a Venezia, Roma e Positano Only You, un filmetto semplice ma con attori importanti, Marisa Tomei, Robert Downey, Jr, Bonnie Hunt. Ho fatto l’assistente arredatore, anche se poi mi hanno dato il credit totale.

Sapevo pochissimo di come fosse realmente lo show-biz americano. Una mattina la scenografa, Luciana Arrighi, premio Oscar con Ivory per Casa Howard, non si sentiva bene. Così mi chiese di andare sul set al posto suo, «tanto l’avete arredato» mi disse. Ci andai, e all’arrivo Jewison mi chiese quale fosse l’inquadratura. Non sapevo proprio cosa dirgli, allora gli mostrai dove avevamo arredato, e lui fu contento dell’informazione. Così ho capito quale sia una delle differenze principali tra il nostro cinema e quello americano: il nostro cinema è diverso, noi non abbiamo dietro gli Studios, così un regista italiano non si sognerebbe mai di chiedere allo scenografo o set decorator dove deve inquadrare. Invece gli americani sanno che hanno delle cose prestabilite, che garantiscono il fluire del “progetto film” senza intoppi e anche il conseguimento del massimo obiettivo raggiungibile (di botteghino, di pregio artistico). Non ci sono emozioni, atteggiamenti estemporanei che possano far deviare la strada. Gli americani sono i numeri uno nello scrivere i film.

Quali sono stati i tuoi film che hanno avuto più successo, e quali quelli per cui ti è piaciuto di più lavorare?

Ho fatto tanti film che non hanno avuto successo e fino a un certo punto non me ne sono affatto preoccupata. Poi ho capito che cresci se i film che fai hanno successo. Questo non sempre dipende direttamente dal mio lavoro: alcuni film che ho amato moltissimo non sono neanche usciti. Ho creduto tantissimo in paio di film che sono andati direttamente nel dimenticatoio. Invece altri a cui non avrei dato una lira sono rimasti, pur di nicchia, importanti.

Ad esempio ho tenuto molto al film The Hills Have Eyes, Le colline hanno gli occhi (film del 2006, diretto da Alexandre Aja): il remake del film del 1977, di Wes Craven. Girato in Marocco, con pochissimi mezzi, tutta la troupe marocchina, falegnami inclusi. Non potevi mostrargli disegni in assonometria, perché non li capivano. Sono artigiani bravissimi, ma devi guidarli tu, perché il problema del disegno tecnico è insuperabile. Ancora oggi presento quel film in testa al cv, perché è stata un’avventura in tutti i sensi.

Il primo film da set decorator, qualche anno prima, era stato Legionnaire (1998), con Jean-Claude Van Damme. Anche quello girato in Marocco, come tanti film in quegli anni, dopo il Kundun di Scorsese. In Marocco gli americani chiedevano sempre di lavorare con gli italiani, che sanno mediare benissimo con i lavoratori locali, come nel caso dei falegnami che ricordavo prima.

Le tue esperienze con i film di fantascienza, prima di Blade Runner 2049?

No, niente. Ho fatto Avengers: Age of Ultron, ma non è fantascienza. I film di super eroi sono un’altra cosa. Comunque non avere esperienze specifiche nel settore non conta molto, se non a livello tecnico. Perché nei film di fantascienza hai a che fare con la costruzione delle tecnologie del futuro, che è una cosa molto impegnativa, perché non basta trovare il design giusto. Poi quelle cose devono funzionare nel set e devono essere coordinate con la grafica, quella che viene messa ad esempio dentro i video, i monitor degli strumenti. Nella Science Fiction questi problemi sono particolarmente rilevanti.

Con chi interagisce maggiormente il Set decorator lavorando a un film come BR?

Per primo il Production Designer, che stabilisce il linguaggio del film, cioè sceglie i mood principali che devono essere seguiti. Linee, forme, atmosfere, palette di colori vengono scelti con il P.D. Accanto, o forse prima, viene il direttore della fotografia. Con lui devi andare d’accordo, tu servi a lui e lui serve a te. La fotografia è la metà del film.

Altri reparti pongono problemi, che è tuo compito risolvere: sono gli effetti speciali, e gli stunt. Questo è particolarmente importante nei film d’azione. Io ho fatto due Bond, dove loro comandano, perché hanno una parte importante del Production Value, il valore che metti nel film, quel che gli spettatori si aspettano da quei film. In Sci-FI il valore lo danno la tecnologie, in Bond il valore è rappresentato dagli Stunt e dagli effetti speciali.

Così tu sei lì a risolvere i loro problemi, non puoi assolutamente aggiungerne di tuoi. Se ti chiedono un tavolo fatto in un certo modo, perché ci devono saltare sopra, tu glielo devi disegnare come va bene a loro.

Questo è un reparto molto maschile, e questo è rilevante perché anche al cinema essere uomo o donna cambia, moltissimo, e non bisogna farsi scrupolo a dirlo. Ad esempio io passo per essere molto forte, mi han chiamato donna “di ferro”: questa è una definizione che a un uomo nessuno darebbe. Perché l’uomo è naturalmente imperativo, mentre per una donna è molto più difficile imporre delle scelte. Qualche donna per affermare il proprio punto di vista sfrutta altre tecniche, che io non ho nelle mie corde. Vengo da Trieste, cresciuta nel rispetto del “se ga de far cussì”, e in questo mi considero molto integra. Così si finisce a essere la donna “di ferro”.

Che fosse difficile lavorare con gli stunt l’ho visto nella lavorazione di Skyfall (2012), quando si era in Turchia per una scena di inseguimento in treno. Arrivo in Antiochia, ad Adana, entro in una stanza dove c’erano 34 stunt, tutti maschi, che dovevano distruggere far a pezzi il treno che io avevo arredato, ogni volta che provavano. Lì ho capito che ci sarebbe stato da combattere.

Qual è il rapporto con il costumista invece?

Il coordinamento è sui colori. Ma è facile, è l’ultimo dei problemi.Certo, in BR, quando ho fatto l’ufficio di Luv con tutte le poltrone bianche, sono andata subito a dirglielo. Così per il pavimento del corridoio dell’Ufficio di Polizia. È fatto in una gomma molto particolare, che magari non si nota, scelta personalmente da Villeneuve ed era carissima, perché lui è attentissimo ad aspetti anche marginali degli arredamenti. È abituato agli inverni canadesi, pieni di neve: hanno dei pavimenti che assorbono subito il fango dalle scarpe, quando entri nelle case. Lui voleva quello, un pavimento per un posto dove nevica sempre, costi quel che costi. Allora abbiamo messo quella gomma carissima, rigata con solchi di un centimetro e mezzo, dove camminare coi tacchi per le attrici era un problema! Son corsa dalla costumista Renee April a dirglielo, appena scelto.

Queste sono state le interazioni speciali con il reparto costumi per BR, minime anche perché si parte da lunghe discussioni iniziali attorno ai visual, cioè a bozzetti iniziali, dove se non metti gli arredamenti già definiti, almeno ci sono i color palette e li vedi con i costumi e, per le luci, col direttore della fotografia. Non c’è possibilità di errore: non può succedere che qualcuno venga col vestito sbagliato. Anzi, la cosa più estenuante di queste grandi produzioni è tutto il tempo che se ne va mentre fai queste riunioni. Per BR sono state infinite: con gli effetti speciali, con gli effetti visuali, con il CGI, continuamente. All’inizio sembra una perdita di tempo perché tu non vedi l’ora per dire di cominciare a cercare gli oggetti giusti, ma poi ti rendi conto che sono passaggi fondamentali, altrimenti ci si allontana e non ci si riprende più. E salta fuori il vestito sbagliato, la luce sbagliata…

Tutto è molto organizzato, anche gli incontri col regista ad esempio. Vanno richiesti e messi in calendario: sembra una seccatura, specie agli italiani, abituati a maggior improvvisazione, ma poi ti abitui e capisci che è meglio non stare nascosti, farsi venire delle idee da discutere, anche perché si esce con le informazioni giuste per mettersi a lavorare.

E quali sono i rapporti con la C.G.I in un film sci-fi come B.R 2049?

Denis voleva fare un film usando poco e bene le CGI. Ad esempio tutto quello che si vede dalle finestre, nelle scene girate in interni, tutto è ricostruito. I palazzi sono dei modellini, tutto quello che vedi esiste veramente ed è fatto benissimo, con una cura particolare. Questo oggi è raro, e contribuisce molto al particolare senso di realismo e di immersione nella realtà del film.

Chi ha lavorato con te per BR 2049?

Dall’Italia eravamo in sette. La mia assistente Maria Luisa, Marzio, Antonio, Sebastiano, Federico Vianelli, che adesso farà Narcos, in Messico, con Stefano Sollima, che poi è quello che ha fatto il sequel di Sicario di Villeneuve.

Per fare BR mi sono portata Rudy Calascibetta, molto di più di un falegname. Viene da una famiglia siciliana, vennero a Roma col boom degli anni ‘60: ebanisti di una maestria fantastica. Son loro che hanno fatto il grattacielo per Le mani sulla città (1963). Lui è l’ultimo, un animale da cinema, un grandissimo artigiano e una grande persona. Con lui abbiamo costruito tanto per BR Guidava un reparto di falegnami ungheresi, perché ho potuto portare solo lui. Ha costruito tutti mobili della casa di K., la cucina, tutti i mobili degli altri luoghi che si vedono. Molto belli erano i due banconi a specchio del casinò, che purtroppo si vedono poco. E sempre nel casinò ha costruito tutto il bar circolare e i tavolini di ferro, 240!

Antonio Fraulo, mio braccio destro, figlio del grande attrezzista purtroppo scomparso, Bonnie, racconta come una barzelletta che io entravo in attrezzeria e dicevo “Antò, questa sedia è perfetta, però deve essere girevole, si deve alzare ed abbassare, poi la rivestiamo e la dipingiamo. È perfetta”. Con film che non hanno un riferimento temporale preciso, scegli delle forme e poi le adatti continuamente.

Tutte persone che sono state fondamentali.

A proposito di tempo, quanto tempo ha impiegato girare un film così lungo come BR 2049?

Non è stato tanto lungo. Dal 10 luglio al 26 novembre 2016. Poco meno di cinque mesi. Lo stesso tempo che si sta per altri film.

Ci fai un esempio di come siete riusciti a lavorare così velocemente, e bene?

Un giovedì arriva di corsa Dennis Gassner, il production designer di BR 2049, con un’esigenza super-urgente. Servivano delle media stations, subito. Impossibile, perché il processo di realizzazione di questi oggetti tecnologici è normalmente molto lungo. Si parte dal visual, che deve approvare il regista, il disegno tecnico, la realizzazione: anche più di un mese. Invece serviva per lunedì. È venuto da noi perché noi avevamo comprato quintali di materiale elettronico, che serviva per arredare i banconi di lavoro dell’orfanatrofio / lager / officina dove lavorano i bambini. Abbiamo messo vicino due schermi di Ipad, presi dai monitor della morgue, a un po’ di materiale delle scene dei bambini e così abbiamo preparato un paio di prototipi in un’oretta: sono piaciuti tanto a Villeneuve che ne ha riempito il film. Le vedi nel Bibi’s bar, ma anche all’esterno dell’appartamento di K, e nella strada. È un esempio di fantasia italiana di successo, quel quid che nelle grandi produzioni gli italiani sanno portare. Andate a rivedere il film e fate caso alle nostre media stations, sono dovunque… BR 2049 ha critiche molto positive, ma anche quelle che lo sono di meno sottolineano il valore dell’ambientazione, delle scenografie, degli interni: il tuo lavoro. Sei soddisfatta?

Non ci contavo. Certo, sono contenta. Ma come dicevo prima, sono stata contenta anche di tanti film che non hanno avuto il successo e la visibilità che meritavano. Comunque c’è anche un poca di tensione, e un filo di spauracchio che la gente dello spettacolo ha sempre, di non avere un altro lavoro dopo quello appena finito. Quindi se finisci un film che ha successo ti rilassi, perché pensi che probabilmente l’indomani qualcuno ti chiamerà.

Il resto per me conta meno. Ho amato tanti film che hanno avuto meno successo, ad esempio Nora, che è stato fatto qui a Trieste nel 1998. Ci ho lavorato con un Production Designer eccezionale, Alan Mac Donald, che purtroppo è morto recentemente. Però il successo di un film mi rassicura soprattutto per quel che sarà il mio futuro, che per una persona è sempre in bilico.

E adesso a cosa lavorerai, hai avuto proposte?

Ho appena finito di lavorare e mi concedo un mese di ferie che spero senza preoccupazioni. Ma è difficile non averne, anche perché se prima ero la prima della fila, adesso sono l’ultima, semplicemente perché la fila è diversa. Col successo di BR 2049 sono passata ancora a un livello superiore, ma di quelli che stanno lì sono l’ultima, e a volte questo si paga.

Che cosa puoi consigliare a chi vorrebbe fare un lavoro come il tuo?

Di non pensarci, di fare tutta la gavetta intanto. Perché il cinema è un mondo a parte, con delle dinamiche che devi imparare, dei modi di relazionarsi che devi sperimentare. Devi capire se sei un animale da cinema, perché il cinema è pesante, stressante. Tanto che fino al 1995 era uno dei mestieri considerati usuranti. Io ho cominciato prima, e così fino al ‘95 le mie marchette contano 4 volte quello che contano adesso.

Noi facciamo dieci ore più una, che diventano tante di più, coi viaggi dai set a casa, con le ore che passi a lavorare extra, se sei appassionato. Quindi è un lavoro molto pesante, ed è un lavoro dove coordinarsi con gli altri sembra facile, ma non lo è. Alla fine io non saprei che consigli dare a chi vuole iniziare. Io non ho mai voluto farlo. Il punto era lavorare per mantenersi, e così mi sono trovata a fare questo. Secondo me è meglio andare avanti senza pensarci troppo, senza voler fare il cinema per partito preso, ma appassionandosi pian piano, all’idea e alla cura dell’immagine, della ricerca che ci deve essere dietro, all’ambientazione, a quel che vuol dire per esempio curare un’ambientazione storica.

È difficile entrare: decidere di fare il cinema è un errore, perché è un ambiente chiuso, pieno di figli, di zii e nipoti e quindi ci devi arrivare naturalmente, un poco per caso, non c’è una ricetta che va bene per tutti. Io veramente, onestamente, non ho mai pensato di fare cinema. Mio padre era un marinaio, mia madre insegnava. Eppure, è una vita che ci lavoro.