Cent’anni di Magajna

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Antologica a Palazzo Gopcevich

di Anna Calonico

 

 

Mario Magajna è nato in piena guerra, il 12 ottobre 1916, e per festeggiare i cent’anni dalla sua nascita Trieste gli dedica una mostra ad ingresso gratuito a Palazzo Gopcevich; inaugurata il 21 ottobre, sarà possibile visitarla fino al 4 dicembre; l’esposizione presenta oltre un centinaio di fotografie in bianco e nero, molte delle quali pubblicate sul Primorski, per il quale Magajna lavorava come fotoreporter.

Peccato che il catalogo della mostra non fosse pronto per l’inaugurazione, ma le immagini esposte, seppur con didascalie minime e in apparente ordine sparso, senza un filo tematico né cronologico, meritano davvero l’attenzione di un pubblico numeroso. Vero è che, estrapolandole dal loro contesto, quale poteva essere ad esempio l’articolo di giornale a cui andavano accompagnate, perdono parte del loro significato, che spesso si può intuire soltanto osservando piccoli particolari: gli abiti della gente, le divise militari, le case o la natura intorno possono essere indice di riconoscimento geografico o temporale, e a volte possono anche suggerire l’evento in cui sono state scattate. “Tutti possono fotografare, ma la domanda è come fotografano”, diceva lo stesso Magajna: tenendo fede a questo principio, c’è da credere che le sue 260000 istantanee rappresentino qualcosa di importante, fosse altro anche solo l’espressione di un viso o un particolare gioco d’ombre. Magajna fotografava di tutto: funerali, battesimi e matrimoni, sagre e mercati, eventi sportivi e musicali, manifestazioni e scioperi, ma anche persone comuni nella loro vita quotidiana, gente al lavoro, atleti, e tanti bambini, a scuola, alla lavagna, sdraiati dietro alla rete di una porta durante una partita di pallone, in spiaggia a suonare la tromba, oppure durante una ludica cerimonia del thè. Ne sono protagoniste due dolcissime bimbe dalla camiciola bianca: una delle due versa il thè nella tazzina dell’altra, vestita come una gran signora: scialletto ricamato sulle spalle e un vezzoso cappellino nero con veletta sui capelli.

Il nostro autore sosteneva che il fotoreporter è un mestiere difficile, perché, anche se la maggior parte delle notizie avviene di giorno, quando si possono fotografare, la vita quotidiana dura ventiquattro ore e quindi anche senza la luce del sole bisogna stare pronti. Ricordava di aver sentito molti parlare male dei fotografi, come influenzati dall’immagine che di loro aveva dato un film come La dolce vita, ma obiettava che può essere un mestiere pericoloso. Meno pericoloso di quello dei fotoreporter di riviste quali Life o Epoca, ma spesso, anche tra i suoi colleghi, si raccontava dei rischi corsi, delle alzatacce in piena notte durante il sonno, o di “qualche manganellata in testa da quelli con il berretto rosso o dai celerini”, perché non bisogna dimenticare che Magajna svolgeva il suo lavoro nella Trieste degli anni più difficili.

Numerose le foto che ritraggono atleti e scene sportive: fanno da padroni il calcio e l’atletica, ma ci sono anche pugili, ciclisti e ragazzi che cercano di infilare un pallone in un canestro. In alcune i volti non sono perfettamente a fuoco, ma intorno l’ambiente ci dice, anche senza guardare la data sulla didascalia, che si tratta degli anni del fascismo: gli atleti hanno tutti una stessa divisa, intorno ci sono dei militari a controllare lo svolgimento dei giochi. Pur non essendo una foto propriamente sportiva, risalta un’immagine che ritrae alcune donne, ridenti, che sgambettano divise in due cerchi. Il loro girotondo è stato paragonato da Meta Krese, sullo speciale Primorski dedicato alla mostra, a quelli dei pretini di Mario Giacomelli: senza nulla togliere a un fotografo eccezionale come Giacomelli, penso che la foto di Magajna abbia qualcosa in più. Colpisce innanzitutto il gioco di chiari e scuri: i vestiti delle donne sono quasi alternati, bianchi e neri, e la stessa dicotomia si trova nel pavimento bianco illuminato dal sole e dalle ombre che si stagliano nette su di esso. Insomma, rispetto a Giacomelli c’è un contorno più ricco, mentre per i seminaristi, vestiti soltanto di nero, lo sfondo è quasi sempre insignificante.

Molti i ritratti in esposizione: alcuni di personaggi famosi (ad esempio Miroslav Košuta, Vladimir Bartol, i pittori Lojze Spacal e August Černigoj, o Tito ripreso durante un incontro con i giornalisti). Altri sono ritratti di gente comune, come quello di un vecchio seduto su di un muretto, che non guarda in camera, quello dei coniugi che festeggiano le nozze d’argento, o quello, scattato nel 51, di due ragazzini che si divertono con le bolle di sapone: lui, di colore, osserva le piccole sfere e la sua amichetta, che si presenta con due treccine scure e un vestitino forse già troppo piccolo.

Infine, bisogna spendere due parole per tutte quelle foto che hanno immortalato eventi importanti, dalle più “popolari” come quella, bellissima, delle riprese del film Senilità in piazza Unità, o quella della prima edizione delle nozze carsiche, nel ’68; a tutti gli scioperi e alle commemorazioni: i bambini della scuola elementare di San Giovanni che manifestano con eloquenti cartelli “Vogliamo la 12!”, gli operai e la gente comune che, più arrabbiati, protestano contro la chiusura del cantiere navale San Marco: “Salviamo il San Marco, salviamo Trieste!”, “Nulla può sostituire il San Marco!” “Non vogliamo andare in Australia”. Poi le proteste per il bilinguismo, e, per contro, la commemorazione a Basovizza per i quattro antifascisti fucilati. Alcune fotografie ritraggono momenti drammatici: alcuni scontri tra i manifestanti, le forze dell’ordine che accorrono; poi uno scatto ci inchioda con la sua serietà. Si tratta di una commemorazione in risiera, e l’atmosfera pesante è resa perfettamente dai numerosi ombrelli neri aperti per la pioggia, che cade su tutte quelle tele impermeabili come scandendo la dignità del momento.

E poi le navi, a Monfalcone o a Trieste: la Saturnia, l’Italia, l’Arcadia, in partenza o in arrivo, salutate da una folla festante, o semplicemente attraccate in porto, imponenti nel loro bianco splendore, osservate da una coppia di anziani, lui di schiena, lei con un ombrello a proteggersi dal sole.

Forse è il caso di concludere questa breve ricognizione con le parole di Magajna: “Di ogni foto che scatto so che entrerà a far parte della Storia. È molto più che scrivere un semplice articolo. È qualcosa di vivo, che affascina l’uomo” (frase pronunciata nel 1983 dopo aver ritirato il Premio Tomšič alla carriera).