Tre domande su Borgese

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Breve intervista a Stefano Magni sullo scrittore e critico letterario siciliano

di Fulvio Senardi

 

Stefano Magni, docente di letteratura italiana all’Università di Aix en Provence-Marseille porta ora in libreria una ponderosa riflessione su Giuseppe Antonio Borgese (G.A. Borgese – Dal nazionalismo al federalismo). Libro “definitivo”, se mai ce ne possono essere in un contesto così fluido come la critica letteraria, e che fa il punto non solo sullo scrittore e pensatore del fronte nazionalista negli anni della Grande Guerra e sull’antifascista che preferì un dorato esilio americano (a partire dal 1931, quando fu chiamato come visiting professor a Berkley) al giuramento di fedeltà al regime (imposto proprio nel 1931 ai docenti universitari), ma anche sull’ultima fase della sua vita, sicuramente la meno conosciuta, quando Borgese consolida posizioni federalistiche e pacifiste anche sulla scorta di una adesione non dogmatica alla fede bahà’i. Il professor Magni ha gentilmente accondisceso a rispondere ad alcune domande per chiarire gli obiettivi e i risultati della sua ricerca.

 

Caro Stefano, di Borgese, anche un italiano di buona cultura conosce solamente il romanzo Rubè, che viene generalmente citato nella maggior parte delle Storie della letteratura per i Licei. Eppure non è la sua sola opera di narrativa, scrisse anche un quasi dimenticato (nonostante alcune recenti ristampe) I vivi e i morti oltre a racconti, scritti di viaggio e perfino poesie. Potresti riassumere, sinteticamente, il suo percorso di narratore?

In effetti Borgese è stato un intellettuale poliedrico e se non si citano molti titoli tra le sue opere narrative è perché ha sperimentato molti generi e, in narrativa, si è limitato a due romanzi e ad alcune raccolte di novelle. Ha anche scritto poesie, ma non lo ricorderei per questo. È stato molto più prolifico e acuto come critico letterario. Aveva uno stile tagliente, opinioni decise, creava belle immagini critiche. Il termine “crepuscolare” ci viene dalla sua penna. Però tutto il mio libro costituisce un tentativo di far dimenticare questo Borgese per presentarne un altro, di cui non si parla mai, che da inizio Novecento, da Il Regno (1903-1904) fino a Common Cause (1947-1951), una rivista da lui diretta quando era docente a Chicago, si occupa della politica e dei problemi del suo tempo. Egli è stato nazionalista al fianco di Corradini, colui che nel 1910 ha fondato proprio il partito nazionalista italiano. Poi, proprio nel 1910, rompe con il movimento nascente e si cerca una nicchia in una posizione di destra più moderata. Resta un conservatore, dalla formazione religiosa molto chiara, ma dalle scelte assolutamente laiche in politica, un po’ come lo furono prima di lui Dante e Mazzini, autori cui si ispira. Borgese è sempre difficile da inquadrare. Esce da un nucleo di intellettuali che hanno sostenuto il fascismo, ma già dal 1910 la sua posizione è defilata. Per questo non è piaciuto ai fascisti e nemmeno agli antifascisti di sinistra nel dopoguerra. Da qui l’oblio nel quale è caduto.

In genere si ricollega Borgese al nazionalismo; eppure, ancorché interventista, si batté per una politica di intesa adriatica, contribuendo, nella primavera del 1918, alla stipula del cosiddetto “Patto di Roma” per attrarre nell’orbita dell’Intesa le nazionalità oppresse dell’Austria-Ungheria, i cechi in primo luogo, ma anche gli slavi del sud; venendo così tacciato di “rinunciatario” da coloro che sostenevano la necessità del totale rispetto del patto di Londra anche relativamente alla Dalmazia. Consideri coerente questa parabola ideologica, che avrebbe dovuto portarlo in rotta di collisione con il Fascismo?

Già nel famoso doppio numero del dicembre del 1910 della rivista La Voce dedicato all’irredentismo, Borgese è stata l’unica vera voce dissonante, proclamando l’inutilità strategica di un’espansione italiana sull’altra sponda dell’Adriatico. Per lui, i territori costieri e discontinui non potevano offrire vantaggi economici all’Italia, sarebbero stati militarmente indifendibili, avrebbero sollevato l’ostilità delle popolazioni slave che si stavano animando per emanciparsi dal giogo austro-ungarico, mentre l’Italia doveva limitarsi a conquistare una posizione egemonica sul piano commerciale, sfruttando la simpatia degli slavi del sud per gli Italiani. Questa la costante della sua visione. Nel 1916-1918 egli ha un momento di popolarità, poiché detta la linea politica estera del Corriere della Sera, e compie qualche missione diplomatica, sempre nella stessa direzione, nel tentativo di far implodere l’impero, rianimando l’irredentismo slavo. In quest’ottica, non ambiva a sostituire l’Italia all’aquila asburgica. Ma attenzione, non era contro il colonialismo in senso assoluto, semplicemente considerava che i popoli slavi dovessero svilupparsi. Li vedeva giovani e vitali. Per lui il colonialismo era ammesso in Africa, nei paesi da lui considerati tribali. Nel mio libro, spero di aver mostrato continuità, ripensamenti, contraddizioni e originalità del suo percorso.

L’ultima fase della vita e dell’operosità di Borgese è certamente la meno nota, anche alle persone colte: sono gli anni di una intensa attività anti-fascista (partecipò, insieme a Salvemini, alla “Mazzini Society”), dell’impegno pacifista (che gli guadagnò la proposta per il Nobel per la pace nel 1952), dell’interesse per la fede bahà’i. Potresti raccontarci qualcosa di quest’ultimo periodo della sua vita?

Sì, nel 1933 si schiera apertamente contro il fascismo e milita nel nome di una democrazia repubblicana. Gli scritti del 1944-1945 sono sempre più antimonarchici. Poi esce dalla prospettiva italiana. È quello che cerco di sviscerare nel mio libro. Di solito la ricerca si ferma davanti ai suoi scritti in inglese. Si parla di “utopia”, ma dietro questa etichetta frettolosa ci sono più fasi, più collettivi che lui organizza, e con posizioni differenti. Dopo The City of Man e il libro Common Cause, la fase più interessante ruota intorno alla rivista omonima. Il nazi-fascismo e la bomba atomica lo convincono della necessità di portare il mondo verso la pace e la democrazia, attraverso un governo federale. In quel momento è uno degli assoluti precursori di un filone che si sviluppa negli anni a seguire. Il dibattito interno alla rivista porta a redigere una costituzione per un governo mondiale. Nel suo schema generale e in molte parti, il testo riprende il progetto universalista della religione sincretica bahà’i che aveva in quegli anni a Chicago il suo maggior centro propulsore. Nel mio libro mostro le intertestualità e tutti gli scambi epistolari tra Borgese e questa comunità religiosa: gli incontri, gli scambi culturali, le conferenze ed altro. Borgese si stava orientando sempre di più verso scritti di carattere spirituale, anche se non si può parlare di una sua adesione alla confessione bahà’i. Un po’ come Dante, ad un certo punto ha sentito che c’era una missione da compiere attraverso la scrittura e a quella si è dedicato, con un lavoro infaticabile per contattare intellettuali in tutto il mondo. Per far capire quanto ampia fosse la sua rete di contatti, ho trascritto lettere scambiate con Gandhi e con Albert Einstein. In quest’opera è affiancato dalla seconda moglie, Elisabeth Mann, figlia dello scrittore Thomas Mann.

 

Stefano Magni si è contraddistinto soprattutto come  studioso della modernità e della post-modernità letteraria.  Suo uno studio analitico dei fenomeni estetici Réécrire dans la (post)-modernité (2010, pp. 445), uno più specifico dedicato alla rappresentazione della Storia, La réécriture de l’Histoire dans les romans de la postmodernité (2015, 440 pp.), e un acuto libretto su Stefano Benni – Interpretare il presente (2015). Dopo aver diretto un libro collettivo sulla Grande Guerra, Gli italiani e la Grande Guerra. Dalla guerra delle idee alla guerra degli uomini (2018, 372 pp.) ha curato alcuni numeri di rivista dedicati alla rappresentazione dell’arte militare o alla memoria, e in particolare al quella della Shoah,

 

Stefano Magni

G.A. Borgese

Dal nazionalismo al federalismo

Campanotto editore, 2021

  1. 448, euro 33,00