Tomizza sul palcoscenico

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Con Tomizza la Trieste che crede nell’amicizia tra popoli da sempre fianco a fianco nello stesso territorio ha ancora un debito aperto

di Fulvio Senardi

 

Tomizza autore teatrale? Una domanda alla quale, fino ad oggi, si poteva dare una risposta solo generica e superficiale. E che adesso invece, grazie al libro curato da Paolo Quazzolo, docente all’Università di Trieste, si può affrontare sulla scorta di una documentazione precisa fino al dettaglio (vedi: Fulvio Tomizza, Teatro, a cura di P. Quazzolo, con presentazione di Elvio Guagnini, Editoria e Spettacolo soc. coop, Spoleto 2019, pp. 448, euro 25,00).

Fulvio Tomizza (1935-1999), precisiamo per chi non ci legge da Trieste, intellettuale-ponte fra il mondo italiano e il mondo slavo, è colui che meglio seppe battersi, con gli strumenti della letteratura, per far comprendere all’Italia i drammi del confine orientale negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale. Lui stesso, istriano di nascita, è stato testimone oculare e vittima di quei fenomeni storici che videro, prima, la persecuzione anti-slava del Fascismo, poi l’aggressività anti-italiana dei vincitori jugoslavi, in un arco di tempo disseminato di morti e profuganze, tragicamente epica quella che ha sradicato centinaia di migliaia di istriani dalla loro terra, trasformando il volto etnico delle città e della fascia costiera. Non per nulla ormai da vent’anni l’appuntamento di forze intellettuali interfrontaliere che mira a una maggior comprensione del passato in funzione della pacificazione nel presente, ha scelto – “Forum Tomizza” – di darsi il suo nome. Incontro di dibattito e di dialogo tanto più necessari nella misura in cui il Giorno del Ricordo, istituito per il 10 febbraio a partire dal 2004 con legge proposta da Roberto Menia e Ignazio La Russa (e salutato con entusiasmo dal Presidente di allora, Carlo Azeglio Ciampi, posseduto dal fuoco di un patriottismo spesso fuori luogo), ha preso sempre più l’aspetto di una liturgia revisionista, smaccatamente slavofoba (mentre il solo modo giusto per parlare degli eventi di quel passato insanguinato dovrebbe prendere esempio dal messaggio che i vescovi polacchi indirizzarono, nel 1965, in coda al Concilio Vaticano II, ai presuli tedeschi, offrendo e chiedendo perdono).

Anche scrittore teatrale dunque Tomizza, oltre che narratore, seguendo una vocazione per le arti rappresentative che si è manifestata anche nel suo amore per il cinema, di cui racconta qualche tappa nel libro Le mie estati letterarie. Lungo le tracce della memoria, ricordando il periodo belgradese, in qualità di studente all’Accademia d’arte drammatica e cinematografica, e quindi il soggiorno a Lubiana – aiuto-regista di un film di ambientazione invernale sulla guerra partigiana – prima del ritorno a Materada, il villaggio natale. Qui, racconta, una breve sosta, a tastare il polso al «comunismo sciovinista» (Tomizza, Le mie estati letterarie) e in diretto contatto con «un socialismo che assorbivo e condannavo perché da un lato riscattava il mio mistilingue angolo contadino da sempre emarginato, dall’altro incarcerava mio padre e altre persone colpevoli soltanto della loro contrarietà al capovolgimento di fronti, di sorti», ivi), prima di trasferirsi a Trieste, dopo il Memorandum di Londra, per raggiungere, «in un ambiente divenutomi presto ostile per il ‘collaborazionismo’ a Radio Capodistria, a Belgrado, a Lubiana», la madre e il fratello. Sarà a Trieste che, metabolizzando dolori e ricordi, insofferenze e nostalgie, senza odio né rancore ma con il cuore colmo di amarezza e di rimpianto per la sua terra, egli scriverà Materada (1960), «il primo e forse miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza», come suona il giudizio un po’ peloso di Claudio Magris.

Il palcoscenico però, a quanto è dato di capire, gli era rimasto nel sangue se già nel 1962 propone al concorso dell’Istituto del Dramma Italiano una prima stesura del Vera Verk, il terzo titolo di una stessa opera, come precisa Quazzolo, che a suo riguardo propone la definizione di «tragedia carsica»: «il Carso Istriano ove è ambientata la vicenda di Vera Verk costituisce uno degli elementi di più forte impatto emotivo: i territori aridi di questo altipiano, le sue atmosfere arcaiche, le pietre spigolose, i colori sanguigni della terra, il senso di isolamento e arretratezza condizionano in modo sostanziale lo svolgimento di una vicenda che, se ambientata altrove, non avrebbe avuto la stessa disperata forza drammatica. I sentimenti evocati da questi paesaggi hanno costituito infatti per l’autore l’elemento di ispirazione primario» (Quazzolo).

Non seguiremo passo passo l’evoluzione della drammaturgia tomizzana: lo fa con ricchezza di riscontri e osservazioni, e con concentrata attenzione tanto alle tematiche e alle forme di scrittura che alla storia delle messe in scena, Paolo Quazzolo nell’ampia introduzione (vero libro nel libro). Mettendo anche in opera, a beneficio dei lettori più competenti, una sapiente acribia filologica che consente di seguire le fasi di elaborazione dei testi, fino alla forma definitiva, registrando di stesura in stesura incertezze e pentimenti, sulla base dei testimoni che Quazzolo ha rintracciato e passato al vaglio, presenti nel “Fondo Tomizza” presso l’ospitale Biblioteca Cantonale di Lugano. Almeno i titoli andranno però ricordati: a Vera Verk segue dunque il Ritorno a Sant’Elia (1965), vicino al precedente per l’ambientazione, la lingua tesa e asciutta, la drammaticità degli eventi. Segue La storia di Bertoldo, una sorta di divertissment drammaturgico con un finale tragico-comico (Bertoldo muore di… indigestione) ricavato dall’opera secentesca di Giulio Cesare Croce, rappresentato nel 1969, l’anno stesso del premio Viareggio assegnato all’Albero dei sogni. Come ultimo capitolo di questo particolare corpus tomizzano L’idealista, tratto dal romanzo di Ivan Cankar (1876-1918), uno dei più grandi autori sloveni dell’epoca moderna, rappresentato nel 1976 al Politeama Rossetti di Trieste.

Nota giustamente Quazzolo che nel 1969 il Teatro Stabile di Trieste aveva messo in scena I nobili ragusei (riduzione del Dundo Maroje di Marin Držić/Marino Darsa, autore rinascimentale di Ragusa/Dubrovnik), rompendo per così dire il ghiaccio con il mondo slavo, quasi a dare attuazione alla rimossa vocazione culturale di Trieste, città, come sognava Tommaseo, potenzialmente aperta verso l’est. L’idealista, da Cankar, permette inoltre di completare il profilo culturale di Tomizza, relativamente alle sue competenze drammaturgiche: echi del verismo italiano, delle tragedie “rurali” di D’Annunzio, del Dramma antico, della drammaturgia decadentistica si intrecciano a costituire una espressività originale, cui è invece sostanzialmente estranea la linea pirandelliana della crisi del soggetto. I personaggi si muovono sicuri nella loro identità contadina, aspri e appassionati, duri come la pietra carsica ma anche venati di insospettate tenerezze, pronti all’inganno come alla lealtà; e, se qualche conflitto li lacera è quello di chi ha voluto combattere per i valori di giustizia e verità e soccombe invece al’ipocrisia degli uomini (il caso di Martin Kačur, l’idealista che corre alla rovina seguendo alte idealità, un personaggio che fa pensare al Tomas Stockmann dell’ibseniano Nemico del popolo).

La svolta narrativa di Tomizza, nei primi anni Ottanta, che lo allontana dalle tematiche del passato prossimo istriano per convertirlo invece al romanzo storico ha anche un riflesso nella produzione drammaturgica. Opere non rappresentate che Quazzolo ha il merito di portare alla luce, approfondendone quindi in sede critica forme e contenuti. La Finzione di Maria, che si svolge a metà Seicento (e che riprende la trama di un romanzo omonimo che inaugura la nuova stagione narrativa, La finzione di Maria appunto del 1981) e Le litanie eretiche, che raccontano in due atti una torbida vicenda dell’ultimo Cinquecento, in cui l’accusa di eresia è strumentale a una vendetta privata. Specialmente in quest’ultima, nota Quazzolo, è da notare la particolare torsione linguistica: «la parlata riprodotta nel dramma di Tomizza, è ricalcata sulla lingua dei verbali riguardanti i processi per eresia, ossia una contaminazione tra l’italiano, il veneto e termini di origine slava e croata. Un linguaggio particolarmente interessante, che dà testimonianza, con immediato realismo, del modo di esprimersi dei popolani di fronte all’autorità, del loro tentativo di parlare nel modo più consono alla situazione ma, allo stesso tempo, del bisogno di fare ricorso a tutta una serie di termini che facevano parte del vissuto quotidiano». In realtà, ancorché toccando vicende lontane nel tempo (dove come mai prima viene drammatizzato il motivo della forza coercitiva del potere che schiaccia gli individui nel conformismo, semina l’ipocrisia, offre strumenti d’offesa all’invidia e alla gelosia) anche i drammi inediti della seconda fase sfiorano ancora quel mondo contadino che è l’inferno e il paradiso di Tomizza; quasi che, solo raccontandolo, egli potesse trovare sollievo alla sua natura, così nelle Mie estati letterarie, di «uomo dolorosamente diviso negli affetti, negli impulsi, nelle fedi e nell’appartenenza etnica». Insomma, sceneggiando la vita dura, i costumi parchi e a volte rozzi, l’istintività ora feroce ora generosa della gente di campagna, il loro calvario quotidiano (e storico, se pensiamo a quell’umanità di frontiera che il Novecento ha obbligato a scegliere, rinnegando una parte di se stessi) è come se Tomizza volesse riavvicinarsi all’infanzia tutto sommato felice, prima che la guerra cambiasse tutto, di Materada (dove in effetti lo scrittore ritorna, negli anni del “disgelo”, facendone il luogo prediletto dei suoi giorni di laborioso ritiro intellettuale); un luogo specifico, a pochi chilometri dal mare, sull’orlo dell’Istria interna e quindi linguisticamente misto, eppure «la proiezione di una situazione universale che parla di miserie, povertà, di arretratezza e di disperati tentativi di emancipazione» (Quazzolo).

Lettura dunque fortemente raccomandata questo Teatro di Tomizza per chi ha a cuore la cultura giuliana, ambisce comprendere meglio la storia non facile di queste terre o, ancora, con la guida di Paolo Quazzolo, vuole ritrovare in vesti un po’ inusuali un autore amato; quello scrittore nei confronti del quale la Trieste che crede nell’amicizia tra popoli da sempre fianco a fianco nello stesso territorio ha ancora un debito aperto.