C’era una volta in Cina
fotografia | giugno 2022 | Il Ponte rosso N°81 | Paolo Cartagine
La mostra di Danilo De Marco a San Vito al Tagliamento
di Paolo Cartagine
È ospitata fino al 4 settembre nella chiesa di S. Lorenzo a San Vito al Tagliamento Un tempo in Cina, mostra di oltre cinquanta foto inedite realizzate nel 1992 dal fotografo udinese Danilo De Marco in alcune aree della Cina orientale.
L’iniziativa rientra nelle manifestazioni del Premio Internazionale Friuli Venezia Giulia Fotografia, istituito dal CRAF Centro di Ricerca e Archiviazione Fotografica di Spilimbergo che nell’edizione 2022 ha attribuito il riconoscimento per gli autori di questa Regione al fotoreporter, giornalista e scrittore De Marco.
Nato a Udine nel 1952, il suo legame con la fotografia inizia molto presto. Attorno ai vent’anni prende in mano la macchina fotografica per non lasciarla più, usandola come mezzo per incontrare l’altro e per condurre una silenziosa battaglia di impegno civile, sempre coerente con il suo pensiero politico a favore di popolazioni minoritarie, emarginate o sfruttate, al fine di dar loro visibilità e voce spesso negate.
Collabora da quasi quarant’anni con testate giornalistiche non solo europee in qualità di “libero fotografo”, per raccontare le sue esperienze attraverso immagini, materializzate in un rigoroso bianconero analogico sempre su pellicola, che lo hanno fatto conoscere e apprezzare anche all’estero.
Ha girato il mondo (America Latina, Asia, Europa, Medio Oriente) al di fuori dei tradizionali circuiti turistici per dare testimonianze fotografiche, accompagnate da testi che lui stesso scrive con acutezza e profondità a integrazione di ciò che le foto ci restituiscono. Gli scopi? Documentare e narrare le oggettive diversità delle condizioni di vita nel mondo; disegnare un diario culturale delle persone che ha incontrato nel suo incessante cercare; tracciare, di conseguenza, anche un profilo di se stesso.
Quasi una fotografia di stati d’animo che supera il mero aspetto formale e punta direttamente alla comunicazione, anzi è comunicazione, e diventa occasione di crescita per chi la scatta e per chi la osserva con partecipazione. Ovvero, agli antipodi della fotografia di intrattenimento e di quella “artistica” che attengono ad altri codici e finalità.
Oltremodo pertinenti al riguardo le parole dell’antropologo Gianpaolo Gri: «ci sono fotografie-oggetto, e sei tu a guardarle; ci sono fotografie che invece prendono l’iniziativa, e a guardarti sono loro. Le fotografie di Danilo De Marco sono di questa seconda specie.»
Cosa offre al visitatore Un tempo in Cina?
L’Autore ci porta con empatia nelle complesse condizioni di vita rurale e urbana, povera ma dignitosa, delle popolazioni di una parte della Cina colte nella quotidianità del 1992, un mondo che trent’anni dopo presumibilmente non esiste più con simili caratteristiche: abbigliamenti consunti, strade dissestate, mezzi di trasporto malandati e antiquati, ambienti di lavoro arcaici dove prevale il lavoro manuale, strutture scolastiche spartane, spogli interni di abitazioni. Eppure, i bambini e gli adulti, gli uomini e le donne ritratti sono sorridenti. Personaggi anonimi che sollecitano riflessioni e confronti con il nostro vivere di quegli anni.
Estraneo al processo di produzione, commercializzazione e consumo istituzionalizzato (come del resto tutti i lavori di De Marco), Un tempo in Cina ha le caratteristiche della ricerca antropologica ed etnografica perché considera aspetti umani, memoria storica, espressioni culturali e religiose, e perché l’autore ha fotografato situazioni reali in maniera diretta senza gli artifici di intermediazioni estetizzanti. Lo si constata dal fatto che le persone ritratte non sono in posa ma sono dedite alle rispettive attività, come se il fotografo non fosse lì all’opera in mezzo a loro con la giusta distanza di rispetto. Accortezza che De Marco ha sempre nei confronti della persone che intende riprendere, e con le quali riesce a instaurare una sorta di misteriosa e momentanea “complicità”. Sono immagini di grande forza comunicativa, momenti di verità negli sguardi della gente. Niente da aggiungere, niente da togliere.
Scarna la post-produzione per conservare – e trasmettere inalterate al fruitore – le sensazioni che lo avevano spinto a realizzare le immagini in quel determinato modo.
De Marco dà una precisa collocazione al suo metodo di lavoro quando sostiene che «la fotografia è un rettangolino di esistenza che ci portiamo dentro», perché osservare quel frammento di spazio-tempo, al di là di ciò che mostra, genera sempre qualche effetto collaterale, specie quando sono trascorsi alcuni anni dalla realizzazione della foto: commuove, fa pensare, oppure non interessa affatto, ma comunque apre nuove prospettive e spesso solleva questioni di cui forse non ci eravamo mai accorti e alle quali cerchiamo di dare una risposta. Inoltre, per lui è fondamentale rivedere le proprie foto; ritiene che l’imprecisione connaturata allo scorrere del tempo faccia assumere sfumature differenti o incongrue ai ricordi immateriali ripescati solo dalla memoria, perché si sovrappongono i significati che, via via, ciascuno di noi individualmente vi proietta.
Alla mostra – grazie alla comprensibilità delle foto frutto della chiarezza espressiva dell’autore – il visitatore ha la possibilità di “entrare” nelle immagini e, soprattutto, di non rimanere indifferente ai messaggi trasmessi. È altresì significativo il percorso espositivo che, con studiate ripetizioni e svolte inaspettate, è organizzato secondo un tempo non rettilineo; un accorgimento che riproduce e sottolinea opportunamente la non ordinabilità del flusso della vita reale.
Un tempo in Cina si fonda sul concetto di “viaggio”, o meglio di “camminare”, cioè cambiare posizione stando dentro all’ambiente scelto e con il quale si desidera porsi in sintonia. De Marco lo fa stando in mezzo alla gente senza la smania di portare a casa tutto, e senza la preoccupazione di raggiungere risultati preconfezionati che sarebbero avulsi da ciò che lui in quegli istanti sta percependo. Allora si lascia attraversare dall’impatto con l’ambiente circostante, non è ancorato alle sue conoscenze previe, non è nella posizione egocentrica del cosiddetto “istante decisivo” teorizzato da Cartier-Bresson.
«Il camminare – scrive Italo Calvino in Collezioni di sabbia – presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto, e pure che qualcosa cambi in noi.» Quindi essere aperti, come fa De Marco, alle sensazioni e alle emozioni, ai suoni e agli odori, ai pensieri sommersi e alle intuizioni repentine, si accorda con la fotografia che, come la vita, è coesistenza di tanti elementi nella discontinuità fra aspetti diversi, talvolta opposti e contraddittori.
Emerge, in tal modo, la naturale solidarietà con cui De Marco percepisce e accoglie la straordinaria complessità umana delle situazioni che intende rappresentare per farci partecipi di ciò che ha visto. Un sapere, il suo, mai in vendita, una preziosa scelta etica e morale controcorrente.
Mölam o festa della grande preghiera
Xiahe 1992