C’eravamo tanto amati

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Vorrei avere dieci euro per ogni volta che ho sentito presidente ed entrambi i vice presidenti del defunto governo gialloverde assicurare tutti che quell’esecutivo sarebbe durato in carica per cinque anni: sarei un uomo ricco. Invece, sto scrivendo ora di questa surreale crisi agostana e mi vengono in mente i versi di una canzone di poco più di un secolo fa, Come pioveva, forse perché attendo con bramosia un po’ di pioggia che attenui la canicola, forse sorridendo di alcuni versi di quell’antica melodia, che da vicino ricordano l’ingloriosa fine di quell’esperienza politica. C’eravamo tanto amati / per un anno e forse più. / C’eravamo poi lasciati / non ricordo come fu

Siccome ragioni organizzative pongono un rilevante intervallo tra la chiusura di questo articolo e la sua pubblicazione, prudenza suggerisce di astenersi da previsioni circa gli esiti della crisi di governo che possono prendere da un momento all’altro, nello spazio di un’ora, itinerari del tutto divergenti, a seconda delle bizze e delle ritrosie, legate assai più al conseguimento o alla forzata rinuncia di singoli e correnti a posizioni di rilievo, anziché a scontri su elementi programmatici, collocati in questa fase in posizioni del tutto marginali nei conciliaboli che preparano – probabilmente – un nuovo esecutivo.

Invece di parlare del governo che (forse) arriverà a giorni, qualcosa però si può dire di quello che ci lasciamo alle spalle dopo poco più di quattordici mesi dal suo esordio. Fine ingloriosa, avvenuta per iniziativa del contraente di minoranza del famoso contratto sul quale si erano accordati i due sottoscrittori, governo a tutt’oggi (27 agosto) in carica «per il disbrigo degli affari correnti», come recitano le giaculatorie repubblicane. Bisognerà allora osservare che il Paese, che era in fase di timida ripresa quando l’accordo tra i due partiti ha consentito la nascita dell’esperienza gialloverde, è ora allo zero in termini di crescita del prodotto interno lordo, ultimo tra i paesi dell’Unione europea, mentre il debito pubblico ha raggiunto il picco storico di 2.386 miliardi di euro, il 132% del prodotto interno lordo, con un incremento di 53,2 miliardi in un solo anno (dati definitivi 2018, attualmente in salita), secondo nell’Unione Europea alla sola Grecia nel poco invidiabile primato.

Un malinconico sorriso suscita la memoria, quando ci riporta alla mente l’incauta profezia del Presidente del Consiglio che il primo febbraio annunciava: «Ci sono tutte le premesse per un bellissimo 2019 e per gli anni a venire. L’Italia ha un programma di ripresa incredibile. C’è tanto entusiasmo e tanta fiducia da parte dei cittadini e c’è tanta determinazione da parte del governo». Ora la fiducia dei cittadini vacilla un poco, e la determinazione del governo si è polverizzata, e di quella esperienza rimangono alcune istantanee, il balcone del tripudio per la sconfitta della povertà, i rosari esibiti nei comizi, ma soprattutto le imbarcazione delle ONG con le folle di disgraziati naufraghi assiepate in coperta in attesa davanti a un nostro porto reso inaccessibile per una chiusura voluta ed esibita unicamente ai fini di una campagna elettorale sterminata in termini temporali e indegna in termini di qualificazione culturale.

Rimarranno naturalmente gli inevitabili strascichi melodrammatici: i presunti tradimenti, gli asseriti striscianti colpi di stato, la pretesa compressione della volontà popolare, il modesto repertorio dei guitti che reggono, grazie alle televisioni e agli autoritratti fotografici con i fedeli plaudenti, le sorti della nazione, sempre più isolata a livello internazionale e sempre più povera a livello materiale e culturale e immiserita nei valori di solidarietà e di rispetto dei diritti umani che ci avevano indotti a credere in una sua diversa fisionomia morale.

Un malinconico film già visto molte volte, una colonna musicale sparata a tutto volume per celare le realtà più autentiche di divaricazione degli assetti sociali, di immiserimento della cultura e dell’istruzione pubblica, di quanto viene organizzato alle nostre spalle, di quanto viene franando sotto i nostri piedi, incontenibile come l’acqua sradicante di una piena.

Come pioveva