Tomizza drammaturgo

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Le tappe, fin qui ancora in parte inedite, di un lungo appassionato incontro del narratore con il palcoscenico

di Paolo Quazzolo

 

Gli spettatori di più “lungo corso” ricorderanno forse la messinscena, nel novembre del 1976, al Politeama Rossetti, della commedia L’idealista, proposta nell’ambito della stagione di prosa dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Si trattava di una riduzione da un romanzo del maggiore romanziere sloveno, Ivan Cankar, preparata da Fulvio Tomizza. Era la terza volta che il celebre romanziere si presentava al pubblico nelle vesti di autore teatrale, dando così conferma di capacità drammaturgiche che la platea – non solo triestina – aveva già avuto modo di apprezzare alcuni anni prima. Tomizza, infatti, aveva esordito a teatro, sul palcoscenico dell’allora Compagnia Stabile “Città di Trieste”, nel gennaio del 1963, presentando Vera Verk, un lavoro drammatico di grande intensità, ambientato in un paesino carsico intorno al 1930. Lo spettacolo era andato in scena al Teatro Verdi, a seguito della mancata agibilità della Sala Auditorium, che era divenuta la nuova casa dello Stabile dopo l’abbattimento del Teatro Nuovo. Nell’ambito di quel rinnovamento drammaturgico che stava allora percorrendo l’Italia, e nella volontà di dare spazio a nuovi autori locali, lo Stabile decise di rivolgersi a un giovane autore quale era Tomizza, che da poco tempo si era imposto all’attenzione nazionale con il suo primo romanzo, Materada. La realizzazione dello spettacolo fu affidata ad alcuni tra i migliori artisti locali: la regia a Fulvio Tolusso, le scene a Nino Perizi, e le musiche a Raffaello de Banfield. Di grande spessore artistico la compagnia: Marisa Fabbri, Fosco Giachetti, Omera Lazzari, Renzo Montagnani e, nella parte dell’autoritaria nonna, Paola Borboni.

Vera Verk è la storia di una donna la quale, allontanata dal suo paese per aver commesso un delitto, vi ritorna vent’anni dopo per cercare di impedire le nozze tra sua figlia e quello che tutti credono essere il cugino, ma che in verità è il fratellastro della ragazza. L’opera, dalla conclusione violenta, ha l’incedere di una tragedia classica e presenta una struttura drammaturgica molto raffinata. Quello che si vede rappresentato sul palcoscenico è infatti l’atto finale di una vicenda che si è svolta molti anni prima: l’antefatto, ignoto allo spettatore, viene rivelato un po’ alla volta, in un percorso doloroso che porta alla scoperta di orrori famigliari, di antichi rancori, di vendette a lungo attese, di quello che si potrebbe definire il “sangue malato” della famiglia protagonista. Una storia forse realmente accaduta, in cui l’asfittica vita di paese amplifica a dismisura le patologie e le manie di coloro che vi abitano. La protagonista Vera Verk, si erge quale solenne figura tragica, che attraverso il prepotente sentimento materno e il sacrificio di se stessa riesce a riscattare la sorte della figlia, aprendole la via a un futuro difficile, ma finalmente libero.

Nel 1969 Tomizza torna al teatro con La storia di Bertoldo, un testo tratto dal seicentesco Bertoldo di Giulio Cesare Croce, in cui si narra la celebre storia del contadino “scarpe grosse e cervello fino”. Abbandonate le campagne e giunto a corte, l’astuto Bertoldo fa scoprire al re la beltà di una vita libera dagli obblighi di palazzo, attirandosi tuttavia le antipatie della regina. Nonostante i vari tentativi di ucciderlo, Bertoldo riuscirà a vivere a corte sino al giorno in cui morirà di indigestione perché “chi è uso alle rape – sentenzia il contadino – non mangi pasticci”. La divertente commedia, che ottenne un notevole successo, fu messa in scena dal Teatro Stabile con la regia di Giovanni Poli e interpretata, tra gli altri, da Franco Mezzera, Lino Savorani e Marina Bonfigli. Il Bertoldo di Tomizza non è un semplice adattamento del modello seicentesco, quanto una riscrittura che non solo propone una diversa sistemazione del racconto, ma inserisce scene, personaggi e situazioni del tutto nuovi rispetto l’originale. Ne viene fuori il ritratto di un mondo che è solo apparentemente lontano dal contesto culturale di Tomizza: dietro Bertoldo si nasconde infatti il Carso, i contadini istriani, l’arretratezza di un cosmo che attraverso la sua saggezza sa tuttavia gustare in modo pieno il senso della vita.

L’idealista, messo in scena dal regista Francesco Macedonio e interpretato da Corrado Pani e Leda Negroni è la storia di Martin Kačur, un oscuro maestro elementare che, agli inizi del Novecento, si illude di poter emancipare, con i suoi insegnamenti, i contadini sloveni dal loro stato di arretratezza e sottomissione. Tomizza, adattando per il palcoscenico il romanzo scritto nel 1907 da Ivan Cankar, propone una storia che è una sorta di progressiva discesa del protagonista nei gironi infernali di un mondo arretrato e ottuso. Odiato dai piccoli possidenti terrieri che vedono messa in discussione la loro autorità, non compreso da quegli stessi contadini per i quali egli si batte, Kačur sarà destinato a una misera sorte, tradito dalla stessa moglie e rinnegato dall’intera società. Come ebbe modo di spiegare lo stesso Tomizza, «Fu, il mio, un lavoro privo di una forte inventiva personale, ma pieno di scrupolo inteso a far conoscere l’umana commedia slovena di Cankar a un pubblico che interamente la ignorava». Ed effettivamente il lavoro, che in seguito è stato riallestito più volte sia in Austria sia in Slovenia, portava per la prima volta al pubblico italiano un autore sino ad allora pressoché sconosciuto.

Al fianco dei lavori rappresentati, Tomizza ha lasciato altre tre opere drammatiche, sino a poco tempo fa inedite e, ancora oggi, mai portate sulla scena. Il primo lavoro, scritto nel 1965 subito dopo Vera Verk, si intitola Ritorno a Sant’Elia: avrebbe dovuto essere rappresentato nella stagione 66/67 dello Stabile ma l’autore, forse temendo che la vicenda potesse turbare gli animi del pubblico triestino, negò all’ultimo momento il permesso. Rimasto a lungo inedito, il dramma è avvincente e doloroso. Ricalcando lo schema drammaturgico di Vera Verk, Ritorno a Sant’Elia narra una storia che rappresenta il violento atto conclusivo di una vicenda consumatasi molti anni prima. Nel 1944, in un paesino carsico – riconducibile a San Daniele, oggi Štanjel – i militari tedeschi decimano la comunità fucilando tutti i giovani. Il podestà, sospettato di connivenza fugge, lasciando dietro di sé morte e disperazione. Da allora la comunità vive in una sorta di tragica sospensione, attendendo il momento della vendetta. Questo giunge all’aprirsi del sipario, quindici anni dopo, quando Enrico, che si scoprirà essere il figlio del podestà di un tempo, giunge casualmente a Sant’Elia. La tragedia non tarda a consumarsi, nel momento stesso in cui i paesani scoprono l’identità del giovane, che viene barbaramente assassinato. Ma l’esaltazione della vendetta si esaurisce immediatamente e gli inappagati paesani comprendono, troppo tardi, di non aver fatto altro che perpetrare, con il loro gesto violento, il dolore e l’odio nel quale vivono da anni. Solo l’intervento della protagonista femminile, Anna, che di fronte alla polizia mente dicendo che Ernesto è caduto dalla torre, potrà chiudere i conti con il passato e restituire a Sant’Elia una serenità a lungo cercata. Un dramma avvincente, dove ancora una volta domina il mondo carsico, la rudezza dei suoi abitanti, l’immagine di un cosmo dominato da leggi antiche e violente, ma capace alla fine di riscattarsi in una umana comprensione del dolore altrui.

Nel 1981 Tomizza pubblica il romanzo La finzione di Maria, storia di un processo per eresia tenutosi alla fine del Seicento. Il lavoro narrativo viene trasposto dallo stesso autore in testo drammatico in cui viene raccontata la storia di una povera contadina della val Seriana la quale, cercando forse di uscire dall’atavica arretratezza e povertà delle sue terre, crede di poter trovare riscatto attraverso un “finzione di santità”. Con l’appoggio del parroco, la ragazza dice infatti di poter vivere con la sola “cena celeste”, ossia cibandosi esclusivamente della Santa Comunione. Denunciati al Sant’Uffizio, i due sono sottoposti a processo e, al termine di un lungo procedimento, condannati. La finzione di Maria è una storia affascinante sia per la ricostruzione storica di un fatto realmente accaduto, sia per la capacità di restituire un contesto storico in cui, dopo le eresie e le devianze dal credo ufficiale che avevano caratterizzato il Cinquecento, si assiste a un ritorno alla fede, che non raramente produceva eccessi e follie. Ma soprattutto è la dolorosa vicenda di chi, condannato dalla storia, cerca emancipazione e una via di uscita dalla propria infelice esistenza.

L’ultimo inedito drammatico di Tomizza si intitola Litanie eretiche ed è scritto nel 1987 in concomitanza con il romanzo Quando Dio uscì di Chiesa. Si tratta nuovamente di una trasposizione drammaturgica del testo narrativo, sebbene i contenuti divergano in più punti. La vicenda è, nuovamente, quella di un processo per eresia, questa volta ambientato a Dignano d’Istria verso la fine del Cinquecento. Una storia inquietante che, oltre a ricostruire gli interrogatori e le atroci pene per coloro che erano giudicati colpevoli, mette drammaticamente in luce le compromissioni che l’inquisizione aveva con delatori e spioni che le consentivano di trascinare in giudizio persone spesso innocenti. Quella delle Litanie eretiche è la vera storia di un processo a carico di eretici, colpevoli di aver introdotto nelle terre istriane il credo protestante. Dietro le accuse mosse alla famiglia dei Calegaro, si nascondono tuttavia le delazioni di un loro nemico, tale Gian Paolo Moscheni il quale, manovrando abilmente numerosi testimoni, attua una vendetta personale contro una famiglia da lui odiata. Ancora una volta un interessante quadro drammaturgico che, oltre a ricostruire una verità storica, riproduce anche, con grande immediatezza ed efficacia, un linguaggio – quello utilizzato dai pescatori istriani – che denuncia il timore reverenziale nel rapportarsi con l’autorità ecclesiastica, ma anche l’arretratezza culturale di un mondo che viveva interamente sottomesso alla fede.

I documenti manoscritti del teatro di Tomizza – così come delle sue opere narrative – sono oggi conservati a Lugano, presso l’Archivio Prezzolini, dove la famiglia dello scrittore ha voluto che fossero custoditi, al fine di essere messi a disposizione degli studiosi e dei ricercatori.