Cerimonie nuziali e unioni civili

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Nella modesta biblioteca domestica di chi scrive, uno dei volumi più antichi è un Rituale Sacramentorum ad usum mediolanensis Ecclesiae, stampato a Milano nel 1736. Si tratta di una sorta di manuale per i curati e i sacerdoti in genere della Chiesa di rito ambrosiano sulle modalità di somministrazione dei sacramenti e sulle relative liturgie, oltre che un prontuario di orazioni per diverse forme di benedizioni.

Il mio latino è decisamente – e temo ormai irreversibilmente – arrugginito, ma mi consente di comprendere, almeno per grandi linee, quanto posso leggere in quel testo di oltre quattrocento pagine, anche senza l’ausilio del mio fidato Castiglioni Mariotti, Il vocabolario della lingua latina, mancante all’inventario della mia biblioteca in esito a un remoto trasloco.

Sfogliando il venerando volume ecclesiastico, mi accorsi che, richiamando le deliberazioni del Concilio di Trento (1545-1563), non tutte le unioni matrimoniali seguivano il medesimo iter liturgico: si operava cioè una distinzione tra i matrimoni non consumati e quelli in cui il “fattaccio” era intervenuto prima della celebrazione delle nozze (Sponsus et sponsa ante consumatiònem Matrimonii peccata confessi). Questi ultimi dovevano sottoporsi a una speciale benedizione prima delle nozze, impartita loro dal parroco dopo una messa celebrata in giornate non festive (la messa difatti nisi celebranda erit de Dominica). In segno di contrizione, poi, i nubendi erano obbligati a seguire l’intera messa stando in ginocchio (Missam genibus flexis audiunt), prima che l’officiante, spogliatosi dei paramenti sacri (deposita planeta et manipulo) impartisse loro l’agognata benedizione. Insomma, praticamente si trattava di una pubblica gogna, inflitta ai “peccator carnali”, ancorché disponibili alla celebrazione di un matrimonio riparatore.

Oggi, nell’Anno santo della Misericordia, nemmeno i più incalliti lefebvriani auspicherebbero una liturgia del genere, anche perché dal Concilio tridentino sono passati più secoli e procedure così discriminanti non sono più ammissibili.

Chi la pensa diversamente è un gruppetto di amministratori locali, in prevalenza leghisti o comunque aderenti ad altre formazioni di destra, che mal si adatta a rispettare la legge che regola le unioni civili. Il loro dissenso rispetto a quella legge dello stato s’è concretato in un primo tempo reclamando un inesistente diritto all’obiezione di coscienza da parte dei sindaci che non intendono trascrivere l’atto, poi sbizzarrendosi in alcune altre trovate. Tra questi amministratori (ahimè) anche quelli della nuova Giunta comunale di Trieste, sollecitamente pronti a stabilire per le coppie omosessuali che intendono regolare la loro unione come consentito dalla legge cosiddetta Cirinnà una serie di norme regolamentari che limitano all’orario di ufficio la possibilità di celebrare l’unione, escludendo quindi il fine settimana, invece concesso alle coppie formate da persone di sesso diverso (nisi celebranda erit de Dominica, ricordate?), e relegando la registrazione dell’atto a una sala diversa da quella dove vengono celebrati i matrimoni. Non è necessario, pare, che le coppie omosessuali seguano la formalizzazione dell’atto in ginocchio, ma ciò non cancella la volontà segregazionista dei sunnominati amministratori.

Tali prescrizioni seguono altri discutibili assilli della Giunta, che tra i suoi primi provvedimenti ha regolamentato, o ha in animo di farlo, questioni surreali quali quella relativa al “burkino” indossato da qualche ragazza mussulmana che intende bagnarsi in uno stabilimento comunale indossando tale indumento, oppure l’allontanamento dai parcheggi delle rive di alcuni giovani di colore che raggranellano qualche soldo segnalando agli automobilisti, senza pretendere nulla in cambio, i posti disponibili.

Non avremmo mai pensato che fossero queste le priorità più urgenti di questa città, né che si andasse a cercare nel citato Rituale Sacramentorum la fonte d’ispirazione per una prassi amministrativa che la proietti con decisione nel secolo ventunesimo.