Chilocù

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Premio PEN Trieste alla 13ma edizione del Premio internazionale di scrittura femminile “Città di Trieste”

Di notte, nel suo studio, tra i suoi libri e le carte di professionista, un uomo maturo bisbiglia una parola che non esiste

di Luisella Pacco

 

“Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche,

sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia.”

(Natalia Ginzburg, Lessico famigliare)

 

 

Chiaro scuro chiaro scuro chiaro… scuro,

ripetevano spegnendo e riaccendendo la luce, come in un gioco, infine spegnendola definitivamente, e dicendogli qualcosa che poteva essere buonanotte o dormi bene.

Quell’ingenuo rito però si ripeté talmente tante volte che lui imparò a dirlo,

chiaro scuro, chiaro scuro,

a dirlo male, certo, come un bambino piccolo poteva pronunciarlo.

Così, divenne Cao-cuo, chi-o-cuo, chi-o-cù.

Forse fu lui stesso a perfezionare il termine, storpiatura dopo storpiatura, finalmente trovando qualcosa che gli fosse facile nella bocca; oppure furono loro, rimaneggiando i suoi pasticci, a dare vita a quella che diventò la formula magica conclusiva, immutabile.

La parola fissa, la parola creata.

Chilocù,

la parola di quando si va a dormire.

 

E adesso, a cinquant’anni suonati, la barba brizzolata, mentre uscendo dalla stanza la mano gli sale a spegnere la luce, ecco che gli viene naturale dirla.

Per molti anni non l’ha pronunciata, non da quando è diventato grande, non con la prima moglie, non con la nuova compagna. Ricorda di averne parlato, sì, di averle raccontato l’aneddoto, distrattamente. Ma basta.

Se avesse avuto bambini, forse l’avrebbe usata, gli sarebbe risalita e tracimata dall’infanzia sua per riversarsi nell’infanzia del figlio.

Ma così non era stato, e con le donne amate Chilocù non gli era mai venuta. Troppo buffa, troppo personale. Troppo vera.

Alla fine gli pareva di averla dimenticata. Buonanotte aveva ritrovato il suo posto, e suonava gentile, bastevole.

Ed ora, tradita per mille anni, Chilocù torna come se non fosse passato un giorno.

Averla pronunciata lo sorprende, gli blocca per un attimo il movimento, gli toglie il respiro. Indugia sulla soglia della stanza.

Sono quasi le otto. Il corridoio dell’ospedale è ancora ben illuminato e ferve delle ultime attività prima della quiete notturna. Come lui, altri visitatori stanno lasciando il reparto.

Buonasera, buonasera.

 

Ho spento la luce nella 19, vorrebbe scusarsi con la caposala, Forse non dovevo…

 

Non saprebbe dire perché lo ha fatto. In tutti questi giorni non gli era neppure venuto in mente.

Oggi, invece, gli è sembrata la cosa più naturale.

La mano sinistra ha cercato il pulsante mentre lui si girava ancora una volta a fare con la destra ciao-ciao, lo stupido gesto, come se si fosse in gita, allegri, uno in strada e uno su un pullman che s’allontana su una curva di montagna.

Un gesto storto, disonesto, come tanti altri compiuti in questi giorni. Riassettare il copriletto anche se non serve, curiosare le scritte sulla flebo, osservare maniacalmente la macchina con i grafici: frequenza cardiaca, saturazione, frequenza respiratoria, verde, azzurro, giallo.

Non capisce niente, e si atteggia a medico come un cretino. Tutto pur di non guardare negli occhi, pur di non dire Perdonami, se venivo poco a trovarti, se correvo dietro ai miei sogni, se scrivevo ogni pezzo sperando di fare il colpaccio della vita, gran giornalista del cazzo, e ti trascuravo, ogni giorno ogni mese ogni anno di più.

Ciao-ciao con la mano è stato l’ultimo dei gesti fuori luogo, mentre spegneva la luce. Mentre dalla bocca gli usciva Chilocù.

 

Questa sera torna a casa. È stanco, spaventosamente.

Potevo restare, si tormenterà tra poco, già in macchina comincerà a rimproverarselo.

Gli viene in mente che da piccolo, spesso, di sera temeva qualche disgrazia e allora restava a vegliare. Nel lettino, ben ostinato a non chiudere gli occhi, si accoccolava sotto le coperte ma era vigile, tendeva l’orecchio. La morte dovrà pur fare rumore, pensava. Resisteva parecchio, fino a metà notte, poi, inconsapevole, crollava dolcemente, senza sensi di colpa. Aveva fatto il suo dovere, e infatti il mattino dopo stavano tutti bene. La casa, la famiglia, la vita erano salve grazie a lui.

 

Ma si crolla anche da grandi, non è cambiato niente. La forza è solo apparentemente superiore. Si è piccoli e deboli lo stesso, si è piccoli e deboli sempre.

Per due notti ha dormito su una sedia, si è sciacquato il viso nei bagni, è andato alle macchinette nell’atrio centrale. Cappuccino, snack di nocciole, patatine, acqua.

La prima notte, un vagabondo lo ha sorpreso alle spalle mentre ritirava il bicchierino del caffè. Non saprà mai da dove era venuto. Un istante prima non c’era e un istante dopo gli alitava sul collo, chiedendogli monete. Poi se n’è andato, è scomparso lungo le scale di servizio, o ha preso un ascensore, o semplicemente ha smesso di esistere.

È rimasto molto scosso. Le volte successive, prima di chinarsi per ritirare il bicchiere, si è voltato ripetutamente e ha controllato che non ci fosse nessuno. Come una donnetta.

C’è una strana atmosfera nei corridoi morti e vuoti, qualche rumore indecifrabile che proviene dai locali tecnici, qualche breve lamento dai reparti, e il silenzio, il silenzio agghiacciante che dai sotterranei sale fino agli ultimi piani dell’edificio.

Gli ospedali di notte sono luoghi terribili. Sfiancano anche il visitatore più risoluto. E poi c’è il sonno, il sonno straziante, egoista, maledetto.

Dopo quarantott’ore, non esistono più amore affetto solidarietà. Tenere tra le proprie mani quelle della persona amata, non ha più nessuna importanza. Conta solo poter andar a dormire.

 

È arrivato a casa alle nove, ha trangugiato un bicchiere di latte, la compagna insisteva perché cenasse per bene e lui le ha risposto bruscamente. Non ci riesco, come fai a non capire?!

Ha dovuto farsi forza persino per lavarsi, poi si è coricato, coprendosi fin sopra la faccia.

A mezzanotte ha aperto gli occhi di scatto. Dorme da neanche tre ore, e gli sembra già troppo.

 

Perché ho spento la luce?, si chiede ancora, rigirandosi nel letto, Perché in tutti questi giorni non l’ho mai spenta e oggi invece sì?

 

La risposta gli sale in gola evidente da fare male. Sente le palpebre improvvisamente colme, un battito di ciglia gli basta per traboccare. Eccole, tutte sul cuscino, le lacrime trattenute di queste settimane, di questi anni, pronte, calde, innocenti.

E quella parola, mi è uscita così, è mai possibile?

 

Cosa diceva, nei primi giorni del ricovero, andandosene dopo la visita? Non ricorda, non lo sa più. Forse non diceva niente, forse agitava solo la mano destra in quello stupido saluto da gitanti, e forse sorrideva o parlava di cose pratiche, di pigiami di spazzolino di mutande, ti serve qualcosa?, no?, allora a domani.

Ecco, ora ricorda, diceva solamente

A domani.

Dunque perché stasera ha detto Chilocù? Da dove gli è venuta? Stavano lì, tre sillabe sciocche, stavano lì sulle labbra come briciole di pane?

 

La compagna viene a letto in quel momento, lo abbraccia da dietro ma in fretta, poi si ritira quasi sull’altra sponda. È ancora seccata per il fatto della cena.

 

– Sai – le sussurra dopo un po’, intuendola ancora sveglia – oggi, uscendo dalla stanza, ho detto “Chilocù”.

 

– Cosa?… Che cosa?

 

Si pente di aver parlato, cercato conforto. Come ho potuto pensare che tu mi capissi? Eppure una volta te ne avevo parlato, perché non lo ricordi? Chi sei? La persona con cui dormo mi sveglio vivo mangio viaggio, eppure sei un’estranea che non sa, che non sa.

 

– Niente, scusa.

 

A chi potrà dirla questa parola, con chi potrà mai usarla? Non la capirebbe nessuno, non c’è su nessun vocabolario. Non esiste, non è mai esistita.

Si commuove di nuovo.

 

Ci sono uomini che se ne fregherebbero di una faccenda così. Lui no. Lui è attento alla memoria, ha cura del passato, di oggetti documenti lettere d’amore lettere dal fronte, atti di nascita di matrimonio, foto di famiglia dagli angoli strappati, il seppia sbiadito o malamente macchiato. Tratta queste cose come farebbe per una ricerca di lavoro. Anni fa ha passato tutto allo scanner per poter conservare meglio.

Ma le parole? E quelle inventate poi?

Questa cosa lo coglie impreparato e fragilissimo.

Della mia parola, ad esempio, di questa, che mi è improvvisamente così cara? Che ne sarà?

 

– OK. Buonanotte – mormora la compagna, senza curiosità.

 

E se provassi a scriverla? Tanto per vedere che effetto fa leggerla su un foglio.

Attende che lei dorma, non vuole domande.

Poi si alza, va nello studio, accende il computer, la stampante, apre un file word, e scrive.

 

Chilocù

 

Poi seleziona la parola e la rende più grande, più grande, più grande. Rimane trasognato a guardarla. Infine la rimpicciolisce al punto giusto, la mette in grassetto, centrale in mezzo alla pagina, e la stampa.

Gli tremano le mani.

Non l’aveva mai vista nera sul bianco, violata, rubata alle intimità delle sere antiche. È un’aspra e dolorosa dolcezza. È la meraviglia di un mondo che non aveva mai avuto testimonianza scritta. È il primo uomo che abbia mai graffiato la parete di una grotta.

 

Si sente solo come soltanto questa notte potrà sentirsi.

Già lo sa, verranno giorni di sollievo, verrà persino la felicità, e abbraccerà di nuovo quella donna che di là dorme, percependola di nuovo vicina e giusta.

Non è disamore, quello di oggi, è solo che questo giorno è fatto così. Non consente nient’altro che dolore.

 

Squillerà il telefono, all’alba probabilmente.

Può venire in ospedale?, gli diranno.

Faccia presto, gli diranno.

Sta male, gli diranno.

Ma non sarà vero, non è mai vero. Quando lo dicono, vuol dire che la morte è già arrivata, ma è stata così silenziosa e discreta che nel turno di notte nessun infermiere poteva accorgersene. E non c’era nessun bambino a far da sentinella.

 

Chilocù, chilocù…

Se la rigira dentro le guance, caramella di zucchero, poi prova a pronunciarla male, come gli era stato raccontato, per tornare al suono dell’origine, all’etimologia. Chi-o-cuo.

Di notte, nel suo studio, tra i suoi libri e le carte di professionista, un uomo maturo bisbiglia una parola che non esiste.

 

Chissà, si chiede, se quando l’ho detta, uscendo dalla stanza, ha potuto sentirmi? Forse no… La sordità, le lenzuola tirate fino a su, la malattia, la confusione… No, probabilmente non mi ha sentito, non l’ho detta abbastanza forte.

Ed è allora che avverte uno spasimo atroce, un vuoto lungo di pozzo senza fine, perché lo sa, lo sa, che non ci saranno altre occasioni per poterla dire a voce più alta.