Cindy dai mille volti

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Nell’ambito di una mostra molto interessante alla Punta della Dogana di Venezia, alcune immagini dell’artista statunitense

di Michele De Luca

 

Della serie “artisti usano la fotografia”… è la volta di Cindy Sherman, nata nel 1954 a Glen Ridge, nel New Jersey, una delle personalità dell’arte contemporanea più apprezzate a livello mondiale, oltre che regista cinematografica, famosa – per quanto riguarda la fotografia – per i suoi “autoritratti concettuali”. In una mostra curata nel 2012 da Gabriele Schor dedicata a questo suo specifico “uso” della fotografia (“That’s me – Rhat’s not me”, Galleria Merano Arte, catalogo Hatje Cantz Verlag), venivano esposte cinquanta sue opere giovanili realizzate tra il 1975 e il 1977, che appartenevano al periodo di formazione della Sherman avvenuto alla State University of New York di Buffalo, quando decise di abbandonare gli studi sulla pittura, per dedicarsi completamente alla fotografia. Qui produsse un ampio corpus di opere che sono le fondamenta su cui costruì il suo percorso creativo.

Percorso che ha sempre seguito la strada maestra della stretta e indissolubile connessione tra arte e vita, una linea – a cui l’artista è rimasta sempre fedele – che, come ha scritto Allan Kaprow “deve rimanere fluida e la più indistinta possibile”. In un gioco sottile (ironico e talvolta “provocatorio”) fatto di ambiguità, contiguità, anche difficilmente decifrabili, in cui la sua stessa identità fisica entra in gioco in modo prorompente, come affermazione costante della propria imprescindibile presenza. Una “presenza” che però lei mira a “cancellare”, ad annullare. In una lunga sequenza del 1975, Senza titolo, le foto ci fanno seguire un percorso che va dalla assoluta riconoscibilità del suo volto via via ad una trasformazione dei propri connotati fino a proporsi come “altro da sé”. Un volersi “negare”, imprescindibile però dalla punto di partenza, dalla vera origine; ma è sempre lei a inventare e a condurre il gioco: “Ho iniziato a lavorare con la fotografia – scriveva nel 1976 – quando ho deciso di usare la macchina fotografica per esplorare la mia esperienza di donna”.

L’opera giovanile di Cindy Sherman può essere suddivisa in tre fasi. Nella prima, si dedica al ritratto. Ricorrendo al trucco e alla mimica, nel 1975, realizza alcune serie fotografiche che la raffigurano con il volto trasformato. Le foto Untitled (Growing Up) affrontano il tema dell’adolescenza, rappresentando i cambiamenti della fisionomia di una bambina che diventa una ragazza. La seconda inizia quando la performance coinvolge tutto il corpo dell’artista. Cindy Sherman fotografa se stessa in diversi ruoli e pose, assumendo differenti identità, e poi ritaglia le figure dalle fotografie (cut-out). Nascono così il film Doll Clothes (1975) e vari lavori in cui questi cut-out vengono sovrapposti e allineati. Nella terza fase, Cindy Sherman fa interagire diversi personaggi e caratteri, come nelle serie A Play of Selves, Bus Riders e Murder Mystery (tutte del 1976). L’artista americana mediante caratteri diversi (ad esempio la follia, il desiderio, la vanità, la sofferenza, la donna affranta, l’amante ideale) vi rappresenta il variegato e ambivalente mondo interiore femminile. In Murder Mystery, con 211 cut-out e ottanta scene, costruisce un racconto giallo dal finale incerto, in cui interpreta vari ruoli, tra l’altro quello dell’amante geloso, del maggiordomo, della madre e del detective.

Nell’ambito di un’interessantissima mostra, “Dancing with Myself”, ora alla Punta della Dogana (Fondazione Pinault) di Venezia, città dove la Sherman aveva già esposto in occasione delle mostre, “Mapping the Studio” (2009-2011) e a Palazzo Grassi in “Where Are We Going?” (2006) e alle Biennali del 1982, 1995, 2011 e 2013, ci propone ora un affascinante percorso nel lavoro fotografico, nel suggestivo e potente “immaginario” e nel più maturo processo creativo della sua arte.

Con una pratica nota come staged photograpy, le foto di Sherman sono il risultato finale di un lavoro complesso che precede lo scatto. L’artista studia nei minimi dettagli la scena, la ricostruisce e crea il personaggio, oggetto della foto, che è interpretato da se stessa. In uno dei suoi primi lavori l’artista interpreta tutti i principali attori di un giallo hollywoodiano mai esistito. Questa serie anticipa il successivo interesse di Cindy Sherman per il mondo del cinema: come tutti gli artisti della Pictures Generation, anche lei è attratta dall’immaginario visuale prodotto dalla cultura mediatica verso la quale, allo stesso tempo, si dimostra apertamente critica. Untitled Film Stills (1977-80) è il suo lavoro più noto: una serie di ritratti in bianco e nero di personaggi che incarnano le tipologie femminili dei film americani degli anni ’40 e ’50, dalla femme fatale, all’eroina romantica, alla casalinga reclusa. Più recentemente Cindy Sherman costruisce e si fotografa nei panni di personaggi tratti dall’immaginario grottesco e horror, dove presenta il proprio corpo trasformato da protesi al limite del mostruoso, immersa tra resti di cibo, pezzi di corpi umani e rifiuti.

La Sherman, dunque, una, nessuna, centomila identità – tra reali e inventate – in cui si riflettono vita vissuta, sogni, voglia di giocare e di stupire (e di stupirsi), in un sempre affascinante, dolce combattimento, tra percezione/auto percezione (in uno sforzo imperterrito di “autoanalisi”), e linguaggi diversi e tra loro anche remoti, sorbiti in tutto il mondo dell’immaginario, che va dall’arte (e dalla sua storia, da Magritte a Warhol, da Duchamp a Christo; ricordando anche le “fotografie del movimento” di Eadweard Muybridge) al cinema, dalla moda ai feticci (bambole ottocentesche, vecchi abiti, maschere), dal fotomontaggio al teatro. Creando, con un processo decisamente “colto”, un mondo di immagini che non lascia indifferenti, ma coinvolge e si sedimenta per sempre nella nostra cultura visiva.