Vita e visioni di Patrizia Bigarella

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“La mia vita”, una gioiosa mostra personale a Trieste

di Walter Chiereghin

 

Col medesimo titolo dell’autobiografia di Marc Chagall, La mia vita, scritta tra il 1921 e il 22 in russo e in seguito pubblicata in francese col titolo Ma vie nel 1931 e ripubblicata con alcune variazioni nel ’57, si è tenuta nello spazio espositivo Trart di Viale XX settembre 33 a Trieste, dal 6 ottobre al 17 novembre, curata da Federica Luser, una mostra di opere recenti di Patrizia Bigarella. La personale, La mia vita appunto, è risultata notevole tanto per la quantità che per la qualità delle opere esposte, oltre che per l’originalità delle tecniche impiegate, nella maggior parte dei casi frutto della costante sperimentazione cui ci ha abituato il procedere di questa artista, della quale, nella non lunghissima vita del Ponte rosso, abbiamo dovuto occuparci per ben tre volte, prima di oggi, e ogni volta per parlare di momenti creativi del tutto dissimili l’uno dall’altro. Così una prima volta ci siamo occupati di lei per una mostra dal titolo “Traslazioni”, curata anch’essa dalla Luser e condivisa al Museo Carà di Muggia con Franko Vecchiet (v. Il Ponte rosso n. 18, dell’ottobre 2016) e si era trattato allora, come preavvertiva il titolo dell’esposizione, «del trasferimento, materiale e funzionale, di singoli oggetti che vengono ri-collocati fuori contesto, ovvero in un diverso contesto, rispetto a quello per il quale sono stati progettati e costruiti, utilizzando una prassi ben nota in ambito artistico […] stravolgendone la natura col trasferirli in un ambito differente da quello per il quale erano stati originariamente pensati». Abbiamo ripreso a occuparci di lei nel n. 30 (gennaio di quest’anno) per la sua partecipazione a una collettiva al Museo Postale organizzata da Franko Vecchiet, suo maestro di incisione e complice – come si è visto – in altre avventure creative, ma anche per una piccola rassegna a Isola d’Istria dove la Nostra ha tra l’altro presentato alcuni “libri d’autore”, «producendo eleganti e fantasiose interpretazioni dell’oggetto libro, in alcuni casi ormai quasi irriconoscibile nella reinterpretazione basata su eleganti ritagli, artistiche ripiegature, ingegnose manipolazioni, incollaggi o addirittura […] traboccando in altri campi creativi tramite la musichetta prodotta da minuscoli carillon incorporati nell’opera». È poi storia di questi giorni un’altra sua comparsata su queste pagine, nel numero 38 dello scorso mese, dove è intervenuta nella sua veste di autrice del ”commento pittorico” al libro di poesie scritte – per una volta – in italiano da Claudio Grisancich, Les Italiennes, pubblicato da Trart solo poche settimane fa.

Anello di congiunzione tra i due universi interiori del poeta e della pittrice, le venticinque opere su carta di piccolo formato pensate dalla Bigarella per illustrare i versi del volume, ospitate tutte in una sezione della mostra a esse dedicata, sembrano adagiarsi tra le pagine conformandosi, come fa un velo aderendo a un corpo solido, a una frazione dei testi, due o tre versi appena, che suscitano nella sensibilità dell’artista un’emozione che viene a tradursi in segno e colore, quasi che il pennello a setole dure con cui agisce conferendo matericità al colore venisse eccitato direttamente dalle parole, in un gioco di mimesi tra i due ambiti creativi.

Quindi, procedendo nell’esplorazione della mostra, il visitatore ha potuto imbattersi in uno, anzi in due cicli pittorici analoghi nella composizione come pure nell’uso misurato del colore. Il primo dei due, in tre pannelli di carta, dipinta in sanguigna e olio, mette in scena (è il caso di dire) tre bestiari, in cui sagome e figure di piante e soprattutto di animali desunti da descrizioni più che da osservazioni dirette – com’era per gli artefici medievali che ci hanno tramandato centinaia di leoni stilofori senza probabilmente averne mai visto uno dal vivo – compongono un’allucinata composizione fortemente dinamica, che tralascia di ancorare i singoli soggetti a un ordine spaziale plausibile, ma li dispone, incuranti di sopra e sotto, vicino e lontano, destra e sinistra, secondo un ordine direttamente mutuato dalla volontà arbitraria dell’autrice, che le ordina con rigore in uno schema compositivo di grande effetto. Per ridare vita a questo universo fantastico di elefanti e unicorni, di cani e cigni, di pipistrelli e di mostruosi quadrupedi a sette teste, la Bigarella attinge da un lato alla propria esuberante immaginazione, dall’altro a un patrimonio iconografico che ci tramanda precarie o improbabili zoologie fin dal Paleolitico, ma particolarmente ai bestiari medievali disseminati nelle pagine dei codici miniatri o nei tessuti degli arazzi che si sono conservati per arrivare fino a noi.

Analogo a questo primo ciclo di immagini, un dittico dedicato a Maria Teresa d’Austria, alla “città imperiale”, la Trieste che ha accolto la giovane pittrice nei primi anni Ottanta, quando qui si era trasferita, abbandonandosi al fascino che suscitarono in lei architetture e storie. Ecco difatti i bestiari del ciclo di cui in precedenza s’è detto arricchirsi di sciabole, spade e alabarde, troni, elementi araldici, di simboli del potere e, ancora, di animali, che a volte si trasfigurano in aquile bicipiti, ma anche in strumenti di gioco e nell’evocazione di situazioni fiabesche, com’è nel caso dei musicanti di Brema effigiati in uno dei due pannelli. Ciò riguardo ai contenuti, mentre per quanto attiene alla tecnica utilizzata, oltre alla sanguigna e l’olio, compare qui anche la cartapesta, materiale che ha irretito la Bigarella, che lo sfrutterà nella creazione di molte altre opere presenti nell’esposizione, conferendo ad esse spessore materico e, mediante l’uso di carte di giornale di differenti colorazioni, un rilievo cromatico aggiuntivo rispetto a quello della pittura ad olio utilizzata.

Si concretano così sulla tela alcuni cicli di dipinti, connotati da tonalità che ne identificano l’appartenenza a uno specifico ciclo: Opera in blu, Opera in verde, Opera in bianco, da pensarsi come singole note di un brano musicale, o parole di una narrazione, dove le figure (ancora tratte da un suo bestiario interiore) appaiono e scompaiono e a volte ritornano, come, appunto, note sul pentagramma, o parole allineate sulla pagina.

Né si arresta a ciò, all’uso gioioso della cartapesta, la fertile inventiva della Bigarella: in una serie di preziose opere di dimensioni più contenute la sua perizia si esercita con foglia d’argento, bitume, olio e acrilico che invadono con discrezione la tela componendosi ordinatamente ad esprimere ancora un altro elemento della sua vita: la dimensione onirica.

Su tutto prevale la sensazione di trovarsi di fronte a un gioco, un compiacimento ludico, che si esercita nella ricerca di orizzonti visivi sempre nuovi, in un’inesausta vena creativa che si direbbe anche inesauribile. «È un gioco – come mi dice, correggendomi, l’artista – ma è soprattutto un mettermi in gioco, ogni volta».

A giudicare dalla freschezza e dall’esuberante vivacità dei risultati cui perviene il suo lavoro, il suo mettersi in gioco la trova, ogni volta, vincente con largo margine.

 

 

Dida immagini:

 

fig. 1

La mia vita – opera in blu n. 2

2018

Cartapesta, sanguigna e olio su tela

 

fig. 2

La mia vita – opera in bianco n. 3

2018

Cartapesta, sanguigna e olio su tela