Come affrontammo il colera

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Differenze, ma anche singolari assonanze, tra le epidemie ottocentesche e quella con la quale attualmente dobbiamo fare i conti

di Gabriella Ziani

 

Stremati da un virus venuto da Oriente che attacca e uccide, possiamo nutrire la tensione, o forse – chissà – stemperarla, retro-illuminandoci con una vicenda dell’Ottocento altrettanto se non più devastante, leggendo con interesse e piacere (ottima scrittura, ottima traduzione) L’esangue invasore venuto da Oriente. Il colera nell’Istria nordoccidentale (1831-1890) della storica slovena Urška Bratož, che a dispetto del titolo si occupa molto anche di Trieste e dell’entroterra carsico.

Laureata in Studi culturali e antropologia, ricercatrice all’Istituto di studi storici di Capodistria dove ha conseguito un dottorato di cui questo volume costituisce la tesi, Bratož guarda al microscopio le ben sette epidemie di colera che si susseguirono nel territorio, allora parte del Litorale austriaco. Usa fonti inedite, descrive il fenomeno quartiere per quartiere a Trieste, San Dorligo-Dolina, Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, Pinguente, e molte altre piccole località della costa e rurali, spesso citando i nomi dei primi ammalati (c’era l’obbligo di registrazione), e dei medici sul campo. Segue il filo delle politiche sanitarie – imponenti, ma impotenti di fronte a un male sconosciuto e alla superstizione e al terrore che dilagavano nelle campagne. Dà abbondante relazione sullo stato incredibilmente misero e “sporco” in cui versavano città e villaggi (Trieste compresa), sui sistemi fognari scadenti e sulle latrine a cielo aperto, su maiali tenuti in casa, e mancanza di cure, per cui i contadini si affidavano all’aglio, all’olio, e come sempre al parroco e a Dio. Non da ultimo, con un raggio di conoscenza vasto sulla storia delle malattie come fenomeno sociale, l’autrice indaga la lenta introduzione dei sistemi d’igiene pubblica (e privata) indotti dall’emergenza sanitaria, la “statalizzazione” della malattia e della morte, gli effetti antropologici, sociali, religiosi, scientifici e medici, urbanistici, amministrativi, economici ma anche etnici che il dilagare di un morbo assai letale (la mortalità era attorno al 50%) amplificava, mettendo l’un contro l’altro la città e la campagna, i ricchi e i poveri, i borghesi e i “villici”, i medici e i ciarlatani, gli italiani e gli sloveni, i militari e i civili, gli autoctoni e i forestieri, con astio per gli “immigrati che portano via il lavoro”, in una caccia al capro espiatorio che – come il divieto di assembramenti e funerali, l’obbligo di quarantena e disinfezione, la chiusura delle scuole, l’aumento di posti letto ospedalieri – si ripete quasi tale e quale di fronte a ogni invisibile predatore.

Nel 1849 l’anestesista inglese John Snaw ipotizzò che la malattia arrivasse per via d’acqua, e non fu ascoltato. E appena il 26 luglio 1884 Robert Koch identificò il batterio, il “vibrio choleare” che già il fiorentino Filippo Pacini aveva in precedenza individuato, e almeno così diede un’identità al morbo che, provocando inarrestabili forme di vomito e diarrea, portava subito disidratazione e stati di choc, dopodiché la morte poteva sopravvenire in un giorno.

Fino a questa scoperta, che comunque non ebbe effetti pratici immediati, si erano fronteggiati – anche in queste zone – due partiti contrapposti. Chi credeva che la causa fosse il contagio, dunque il contatto con persone o con materiali infetti, e chi dava la colpa ai «miasmi», cioè all’aria impura e fetida, che emanava da deiezioni buttate per strada, case sporche e sovraffollate, alimenti in decomposizione, macellazioni fatte nella corte delle caserme. Ma l’occasione era buona per sollecitare anche un’altra salute, quella dell’anima: si raccomandava vita sana e morigerata, di non bere e non andare in collera. L’«odore di povertà» era accostato al sudiciume, e questo al peccato. Lo sporco e il pulito sono del resto due forti poli simbolici.

Ma i poveri contadini, violati nelle loro cementate consuetudini, arrivarono nel 1855 al «delirio» – scrive Bratož – di sospettare che i medici di città venissero ad avvelenarli con la canfora, che dall’ospedale si uscisse solo morti, e perfino nascondevano i parenti malati (un uomo chiuse la moglie in cantina dentro due botti). A un certo punto i testardi “villici” furono accusati di attentare alla salute pubblica, e i parroci sollecitati a persuaderli, diventando il tramite tra città e campagna, fra Dio e governo. E se si ammalava un ricco? Aveva certo “affezioni morali”. Sta di fatto che nel 1836 a Gorizia, in casa dei nobili Coronini dove aveva cercato rifugio dai disastri politici di Francia, morì di colera anche Carlo X di Borbone.

Di lì a poco ci si accorse che l’acqua di mare era un portentoso veicolo di “vibrioni”, e questo scardinò un mito per gente che viveva sul mare, e del mare, e pensava che al contrario essa facesse bene – in Istria fu trovata una donna che ne beveva un bicchiere al giorno, e il medico triestino Augusto Guastalla l’aveva prescritta come lassativo… Naturalmente, era acqua lercia, vista la quantità di scarichi dalle navi. Le micro-storie, in questa macro-storia, sono proprio tante mentre il quadro generale è riassunto via via in tabelle e statistiche, così che di ogni borgo o quartiere sappiamo chi fu il primo malato, il numero totale, i guariti, i morti, le loro professioni, le percentuali: sia a Trieste (Rena vecchia, Rena nuova, San Giacomo) e sia a Capodistria, dove le tubature in legno risalivano al Medioevo, i più colpiti erano i rioni indigenti, e le vittime soprattutto artigiani (nel 1885 il 25% dei malati), pescatori e marittimi (17%), mentre il clero si salvava (4%) e stranamente anche i dottori la fecero franca.

Ma ogni ceto in conseguenza delle ondate pandemiche diventava più povero: chi per morte dei familiari, chi per indebitamento, chi sfrattato da case insane, chi orfano, chi perdeva i raccolti, chi i commerci, c’erano come oggi quarantene, ferrovie sotto controllo, locali pubblici a orario ridotto, e in più navi bloccate nei lazzaretti. Si susseguivano distribuzioni di cibo e campagne di beneficenza (dell’Associazione di mutuo soccorso fu presidente Pasquale Revoltella): la filantropia iniziava un processo di laicizzazione. Ma a Trieste la Madonna detta “dei fiori” divenne simbolo di salvazione, e il vescovo mons. Santin alla fine la collocò sotto Santa Maria Maggiore, dove tuttora sta. La sanità pubblica però scardinava il fideistico abbandono alla Provvidenza. Meno religione, più ragione. Un cammino lungo, e doloroso.

La prima epidemia, nel 1831, partì dalla regione indiana del Bengala e invase il mondo, facendo 500 mila morti in Inghilterra e 100 mila in Francia. A diffondere il contagio erano i soldati in transito, le navi, i porti, i commerci, le immondizie sparse. Vere e proprie pandemie si scatenarono, colpendo duramente Trieste e l’Istria, negli anni 1836-’37, 1849, 1855, 1866, 1873, 1886. Chi aveva soldi, scappava. Citando fonti slovene, la Bratož dimostra che nel 1855 fuggirono da Trieste 20-25 mila persone per spostarsi a Gorizia e a Lubiana. Difficile mantenere in equilibrio allarme sanitario e calma sociale, col timore che scappassero pure i medici, il cui numero fu anzi aumentato: furono spediti in ogni borgo. A Capodistria si distinse l’attivissimo Gian Andrea Manzoni, a Trieste Alessandro de Goracuchi. Anche allora si parlò dei medici come di «veri eroi». Nel 1849 a Trieste ce n’era uno ogni 1700 abitanti. Si dovevano però pagare: certo i poveri non erano incoraggiati…

Proprio nel 1849 si accentuò la pressione sul binomio morale-salute, mentre entravano in vigore più rigide misure di sorveglianza. Del resto la situazione era gravissima: tra agosto e novembre 5142 malati, 2185 morti (incidenza del 45%), oltre a 15 mila sfollati, la città passò in breve da 63 mila a 48 mila abitanti. A Capodistria 73 contagiati, 35 morti, in 520 località istriane il bilancio fu di 1303 malati e 565 morti. Nel 1855 andò pure peggio: tasso di mortalità del 49%.

Trieste fu sconvolta dall’epidemia peggiore nel 1866, con un’incidenza di morti del 50%. Le norme su igiene, pulizia delle strade, disinfezione di abiti diventarono più numerose e più stringenti, con un’accelerazione definitiva nel 1870 quando all’ennesima epidemia l’Austria varò la prima legge sanitaria statale che imponeva regole ferree su spazzamento, disinfezioni, verifica di scuole, macelli, bucati, sepolture, cimiteri, fiere, ambulanti, treni, vagabondi, con ingenti spese pubbliche. L’ultimo terribile colpo del colera cadde nel 1886, l’Istria registrò ancora un indice di mortalità del 47% (ma per i contadini saliva al 60). A Trieste 900 casi, 560 mortali (il 62%). A quell’epoca aveva 152 mila abitanti. In porto attraccavano 6800 navi, epicentro del focolaio. Sulle case dei malati si attaccava il cartello “Colera”, e fu inventato un carro sanitario per il loro trasporto. Era attivo il lazzaretto di Santa Teresa, mentre a Muggia quello di San Bartolomeo, costato 80 mila fiorini, godeva di oltre 63 mila metri quadrati e ricche attrezzature, perfino chiesa e telegrafo.

Ma nel 1892, quando una commissione di sanità andò a visitare Capodistria, trovò ancora porcili in casa, e abitazioni descritte come «tombe viventi». A Trieste le cose non andavano meglio, dopo 25 anni la nuova rete fognaria non era stata ancora realizzata (l’indolenza ha radici antiche…), e i quartieri poveri avevano le stesse case malsane. Bratož ricava questa informazione dal memorabile studio di Flavio Braulin La questione sanitaria nella Trieste di fine ‘800: i caratteri antropologici della medicina ospedaliera sul Litorale austriaco, edito nel 2002 da Franco Angeli. Ma va senz’altro ricordata sul tema specifico l’ampia e antesignana trattazione di Rino Cigui, Le epidemie di colera a Trieste e in Istria nel sec. XIX, pubblicato nel 2008 dal Centro di ricerche storiche di Rovigno (in Atti, vol. XXXVIII, pp. 429-504, facilmente accessibile in Internet).

In conclusione, tutte queste dinamiche incrociate assumevano nel Litorale un ulteriore risvolto, quello etnico, che la Bratož tiene sott’occhio usando fonti italiane e slovene. Le dicotomie città-campagna e borghesia-popolo infatti qui raddoppiano e aggravano le differenze e il reciproco astio: la città è a maggioranza filo-italiana, il contado, il Carso e l’Istria sono sloveni. Trieste è un porto in enorme espansione, esporta il colera ma attinge con voracità ai prodotti del mare e della terra che vengono dalle periferie, usa personale di servizio sloveno, lattaie e lavandaie slovene, e queste ultime diventano – poiché è l’acqua ormai la grande colpevole – il capro espiatorio di turno. Al contrario in campo sloveno si accusa la borghesia triestina di sfruttare quelle «povere vittime» che proprio in zona urbana s’infettano e ammalano. Si acuisce la “retorica dell’odio” e, sottolinea la Bratož, anche le relazioni vengono «contaminate». Il pericolo crea paura, la paura disarticola gli equilibri, le società sono terremotate in ogni loro dimensione. La storia delle pestilenze già insegna. Tutto cambia, per fortuna. Ma cambia veramente?

 

 

 

Urška Bratož

L’esangue invasore

venuto da Oriente

Il colera nell’Istria

nordoccidentale (1831-1890)

traduzione di Laura Castegnaro

Cierre Edizioni, Verona 2021

  1. 427, euro 16,00