Contro la Business Art

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Mostre politiche, prive di anima, prive di contenuti realmente culturali, che appiattiscono gli artisti presentati e i cervelli di chi va a visitarle

di Anna Calonico

Contro le mostre non è certo l’unico libro sull’argomento, e, purtroppo, questi tempi suggeriscono che non sarà l’ultimo. Scritto a quattro mani da Tomaso Montanari (suo il Cassandra muta di cui Walter Chiereghin ha già parlato nel numero 25 di giugno 2017 di Ponte rosso) e da Vincenzo Trione, è un testo a dir poco interessante e pieno di notizie, un testo che bisogna leggere per indignarsi fino all’arrabbiatura, per aprire gli occhi su un sistema degenerato, per mettere in relazione tanti eventi degli ultimi anni che, spesso, nei giornali e in televisione non ottengono nemmeno lo spazio dell’ultimo taglio di capelli di una velina. Mi permetto di fare del sarcasmo perché, tristemente, sembra l’unica arma contro le brutture vergognose di cui Montanari e Trione ci parlano in questo volume, usando a loro volta frecciatine feroci e definizioni che farebbero ridere se non fossero così brutalmente veritiere: sì perché in queste pagine si parla di business art, di circo Barnum, di mostre blockbuster, mostre lunapark, del tutto simili ai cinepanettoni, e persino di popolo bue!

Il titolo può lasciare interdetti: perché mai in un paese come l’Italia, in cui ogni borgo racchiude tesori culturali, qualcuno dovrebbe essere contrario alle mostre, che dovrebbero aiutare a portare ulteriore cultura? Semplicemente, perché non è quello che fanno negli ultimi (ormai parecchi) anni, e ci troviamo di fronte a sei capitoli capaci di convincere il più malfidato dei San Tommaso.

Ho preso in mano per la prima volta questo libro dopo aver visitato (ahimè, lo confesso) la mostra milanese su Caravaggio di questo inverno: Palazzo Barberini si è privato per tutta la durata dell’esposizione del suo Narciso e della Giuditta che taglia la testa a Oloferne (che, insieme alla Fornarina di Raffaello, rappresentano i tre simboli dell’intero museo), la galleria Doria Pamphilj ha prestato la Maddalena penitente, e il Riposo durante la fuga in Egitto, i musei capitolini la Buona ventura, Galleria Corsini e Galleria Borghese hanno dato il loro contributo e, udite udite, la chiesa di Sant’Agostino è stata orbata della sua bellissima Madonna dei pellegrini che, proprio a Milano, qualche anno fa era stata rovinata (addirittura bucata!) da un turista evidentemente affetto da turbe psichiche. Insomma: un vero e proprio sacco di Roma!

Con questo esempio ho già spiegato alcuni dei punti principali di Contro le mostre. La maggior parte delle esposizioni non si pone come obiettivo principale quello di portare sapere, esprimere un punto di vista magari insolito su un dato artista, ma quello, ben più turpe, di fare spettacolo e, come vuole lo spettacolo, soldi: Un vero atto di simonia: commercio peccaminoso di beni sacri (p. 15). Sono mostre, appunto, blockbuster, di facciata e di facili guadagni, mostre politiche, prive di anima, prive di contenuti realmente culturali, che appiattiscono gli artisti presentati e i cervelli di chi va a visitarle. Non contengono informazioni maggiori di quelli di Wikipedia né spunti interessanti per una visione del periodo storico e sociologico. Anzi il contesto è spesso del tutto assente, e strappare le opere dal loro sito natale porta a snaturarle, facendone perdere parte del significato. Per non parlare, ovviamente, degli enormi rischi che i quadri sopportano in questi continui spostamenti. Viaggi spesso senza sicurezza, senza esperti ad accompagnare questi tesori inestimabili: terribile il resoconto sul prestito dei ritratti dei coniugi Doni (opera di Raffaello mai uscita prima dall’Italia!) al Museo Puskin di Mosca dopo (subito dopo, appena due mesi! Nemmeno il tempo di scegliere con criterio, e di preparare le opere al trasloco!) l’accordo firmato da Matteo Renzi sulla collaborazione tra il Puskin e gli Uffizi. Opere il cui spostamento era stato assolutamente sconsigliato dagli esperti perché estremamente pericoloso per il loro mantenimento, oltre che estremamente difficile. E si arriva ad un altro punto chiave del libro: con che criterio vengono scelte le opere da spostare? Perché, se non si tiene conto della loro unicità e, quindi, del loro inestimabile valore, bisognerebbe forse chiedersi se un turista che arriva a Firenze può avere un qualche diritto (non parliamo di aspettative) a vedere i coniugi Doni, opere tra le più famose anche oltre confine!

Splendido l’esempio che troviamo a pag. 38, la risposta di un comune lombardo a cui era stato chiesto in prestito un pregiato codice miniato in suo possesso: Spiacenti non poter concedere prestito oggetto in parola perché ne abbiamo uno solo. Veri e propri eroi della resistenza culturale! Come il direttore del museo di Reggio Calabria che si è rifiutato di inviare i Bronzi a Milano per l’Expo: l’ironia con cui è raccontato l’episodio rende decisamente chiara la “simpatia” dei due autori per personaggi come Marco Goldin e Vittorio Sgarbi. Per inciso, ricordo che il primo è stato l’ideatore, anni fa, di una mostra sul tema della notte nella storia dell’arte brillantemente definita “minestrone notturno”; e quest’ultimo ha ben pensato, recentemente, di incentivare il pubblico triestino a visitare un’esposizione di quadri in suo possesso invitando come ospite d’onore non uno stimato critico d’arte, o Alberto Angela, o anche Philippe Daverio, bensì Gianluigi Buffon, detto Gigi, portiere della Juve e della nazionale. Non critico il personaggio sportivo, ma so che è notissimo al pubblico il binomio inscindibile calciatori/cultura.

Per non parlare del binomio arte/moda, a cui è dedicato un intero capitolo, con esempi più o meno noti ma sempre da brividi, mostre/sfilate in cui il pubblico arriva non per vedere ma per farsi vedere, e che sminuiscono, oltre alle opere d’arte (non parliamo delle opere rovinate perché porte e finestre che normalmente vengono tenute chiuse per mantenere il microclima ideale sono state aperte per la sfilata di Trussardi a Brera) anche le stesse creazioni stilistiche. Eccolo, un altro punto chiave: come possono dialogare opere così differenti? Cosa hanno da dirsi la Paolina Borghese di Canova e i manichini in minigonna e pelliccia? O ancora, quale dialogo illuminante può scaturire dall’inserire opere contemporanee accanto ai grandi maestri classici? Giustamente, gli autori suggeriscono che può erompere soltanto vergogna per il nostro presente. Nel libro si parla molto di crossover senza senso, risonanze non riuscite, di passaggi di informazioni culturali tra il vecchio e il nuovo, o tra arte e moda, che non avvengono per la pochezza delle nuove creazioni, o per l’appiattimento culturale che simili accostamenti provocano nei musei e nei siti archeologici in cui vengono schiaffate. Riprendiamoci i musei, si intitola appunto un appassionato capitolo, in cui viene invitato il lettore a rendersi conto che la cultura, per noi che abitiamo in Italia soprattutto (nazione fondata sulla cultura come forse nessun’altra in Europa), viene dai nostri borghi (quante opere artistiche manteniamo con le nostre tasse!) e non dall’effetto Goldin, dalla biennalizzazione (non è un complimento) dell’arte. È un capitolo “ottimista”, che fa ben sperare per il futuro e per i giovani, perché porta molti esempi di cooperative e associazioni culturali nate soprattutto, ma non solo, nel Meridione ad opera di giovani studiosi, archeologi, ricercatori: Me. Mo CantieriCulturali, Società Parchi di Val di Cornia, Officine Culturali, Comitato Mater Dei R-esiste, solo per citarne alcune. Cittadini non certo ricchi che si tassano per avere più arte e più bellezza: che formidabile schiaffo morale ai politici che continuano a gettare fondi pubblici nell’industria desertificante delle mostre private (p. 152) Questa citazione viene dal capitolo conclusivo, che parla di street art, una vera arte pubblica, realmente immersa nel contesto in cui viene realizzata, e che ricorda un episodio avvenuto a Bologna: cavalcando la fama di Bansky, era stata ideata una mostra di street art che aveva portato alla vera e propria rimozione delle opere dai muri su cui erano state dipinte per poterle esporre in mostra (paradosso della mercificazione: chiudere in una stanza l’arte di strada!). A quest’orrore, in molti si erano opposti e, primo fra tutti, uno di questi artisti, writer Blu, che piuttosto di veder svenduta e politicizzata la sua arte ha preferito distruggerla, cancellando una per una le sue opere dai muri di Bologna.

Ci vuole coraggio a rompere questi schemi ormai consolidati, questa fabbrica di ricchezza e potere politico: Dove finisce il paesaggio della natura, dove inizia l’arte dell’uomo? È una domanda senza risposta. Anzi: la risposta è che questa fusione, questa comunione sono il vero capolavoro della nostra storia. È esattamente quello che chiamiamo il contesto: ed è ciò che ci aspetta, se solo troviamo la forza di dimenticare il supermercato delle mostre. Il coraggio di rompere la gabbia. (p. 52). È una frase che sintetizza all’estremo i contenuti di questo libro, piccolo di formato ma immenso di concetti: varrebbe la pena leggerlo anche solo per sentir parlare della figura del curatore delle mostre, o per rendersi conto, dato che i giornali forse non hanno messo ben in chiaro le strette relazioni fra i pochi nomi dei nuovi direttori dei musei, di quanto la cultura sia ormai in mano a politici e affaristi.

I nostri musei, le nostre opere d’arte sono sempre più considerate oggetti di intrattenimento a pagamento, e come tali trattate, ridotte a luna park che producono lusso, denaro e interessi dei privati senza la paura di rovinare, e magari perdere per sempre (senza nemmeno rendersene conto), pezzi di valore storico artistico incommensurabile. La grande arte resta qualcosa di meravigliosamente inestimabile: impossibile da valutare nell’ottica dello scambio economico (p.15).