Cristina Campo e le altre

| | |

L’intellettuale bolognese e le “donne nere” che aderirono con convinzione all’ideologia fascista

di Silva Bon

 

Andando per libri, a volte si fanno delle scoperte interessanti e interconnessioni del tutto inaspettate. E nulla succede per caso.

Recentemente sono stata colpita dal ripetersi di citazioni e di rimandi culturali veramente imprevedibili, in libri che vivono in ambiti di studio molto distanti tra loro. Proprio ciò ha motivato il mio incontro con Cristina Campo (Bologna, 1923 – Roma, 1977), intellettuale, scrittrice, poetessa di nicchia; personalità accesa, scomoda e controversa del 900 italiano per la sua dissidenza.

Il primo spunto me lo ha dato Eugenio Borgna, che, novantaduenne, scrive opere necessarie, che aiutano ad affrontare la comune condizione umana. Lui, parlando della sua personale paura della morte, dichiara di trovare un aiuto valido, una ragione sufficiente per affrontare l’ultimo ineluttabile traguardo, nella lettura di vari autori: il nome femminile della Campo spicca nel breve, esclusivo elenco.

E allora ho potuto ricollegare questo debito culturale del grande psichiatra, con la prima pagina, l’incipit del recentissimo Bobi di Roberto Calasso, in cui si dice, quasi occasionalmente, con leggerezza veloce, che il gruppo di amici andava da Bazlen per sottoporre alla sua valutazione le traduzioni delle poesie di W.C. Williams, curate e proposte da Vittoria (Guerrini), in arte Cristina Campo. Si conoscevano tutti, nella Roma degli anni Cinquanta!

Della Campo la Adelphi ha pubblicato tutto: prosa, poesia, saggi, epistolari. Ma è stata la sua biografia, Belinda e il mostro, firmata da Cristina De Stefano, che mi affascinato per la sua esemplarietà. E mi son fatta delle idee precise sul profilo femminile che ne emergeva: ho pensato che la Campo è nata ed è stata educata come un “fiore di serra”, adorata e vezzeggiata dai genitori; cresciuta nell’ambiente colto, ricco, mondano dell’alta borghesia bolognese, afferente alla figura dello zio, Vittorio Putti, ultimo erede di una delle famiglie più aristocratiche, ricche e potenti di Bologna. Fondatore e direttore dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, scienziato e chirurgo di fama internazionale, legato ai massimi gerarchi fascisti e allo stesso Mussolini. Frequenti le feste nel parco che circonda la sua villa a fianco della Clinica, in cui Cristina è la reginetta.

Cristina, travolta dalla caduta del fascismo nel luglio 1943, e poi dall’Armistizio dell’8 settembre, rimane fedele ai miti e alla mitologia della propria appartenenza sociale; alla ideologia politica condivisa con il padre, Guido Guerrini, musicista e compositore, ex Direttore dei concerti del “Maggio Musicale fiorentino”. Guarda con fiducia alla presenza in Toscana degli occupanti tedeschi, che le offrono sicurezza e speranza nella vittoria finale del nazifascismo sulle forze resistenti e alleate.

Lei, con la caduta del fascismo, perde un mondo di privilegi, che poi rimpiange per tutta la vita e non riconosce le conquiste di democrazia pagate con lacrime e sangue dal popolo italiano. Gli anni della guerra sono devastanti e le paiono insostenibili e ingiuste le privazioni subite, imposte da nemici politici ai quali non riconosce alcuna legittimazione.

Resterà una reazionaria; professerà una fede cattolica tradizionalista, radicale, aderendo, negli anni del soggiorno romano, al movimento lefevriano di contestazione del Concilio Vaticano II.

I punti di riferimento dichiarati, a cui si impronta la sua pur difficile vita, in forme mai equilibrate, sempre eccessive, spinte al raggiungimento della perfezione assoluta, sono: il paesaggio, la scrittura, i miti, i riti.

I suoi libri, scritti in una prosa molto ricca, costruita, ridondante di sensualità, catturano l’attenzione; i contenuti, stimolanti e non convenzionali, sono volti con nostalgia a far riemergere le ombre del passato felice, vivido e sfavillante. I voli immaginifici scaturiscono dalla fervida fantasia infantile immersa nelle favole, vissute come verità, che più tardi avranno una coloritura junghiana; e ancora dalle sollecitazioni mistiche derivanti da incensi e paramenti esibiti nelle liturgie solenni, dall’incantamento del mantra sacro del latino ecclesiastico e dall’espiazione sublimata attraverso gli esercizi penitenziari trappisti.

Un’amica, Marina Pascutto, mi ha inviato il testo della sua interessante tesi di laurea triennale, discussa all’Università di Trieste nel dicembre 2021, relatore lo storico Fabio Verardo: Ritratti di donne in nero, un’elaborazione storiografica accurata e puntuale. Ne è nato un collegamento spontaneo, più squisitamente storico, con altri lavori di ricerca, non solo di mia produzione, che tratteggiano figure di donne, protagoniste assai discusse, pur con ruoli e livelli operativi diversi, anche nel tragico Novecento giuliano: sono “Le donne nere”, che sposarono l’ideologia fascista, collaborarono con l’occupante tedesco, vendettero nomi e indirizzi di ebrei alle SS. “Pentite” e “non pentite”.

Le penso come punte emergenti dell’iceberg della diffusa omologazione al consenso nel Ventennio, che coinvolgeva anche le donne, e le chiamava a forme di adesione acritica, e a volte perfino a forme di esaltazione irrazionale; ma anche, durante gli anni del Litorale Adriatico, di compartecipazione attiva alle forme legali e illegali di prevaricazione nazista, quindi penalmente perseguibili: gli atti dei processi celebrati nell’immediato secondo dopoguerra dalla Corte d’assise straordinaria di Trieste, la cosiddetta “giustizia di transizione”, documentano ampiamente tali scelte di campo.

È ben nota la figura di Maria Pasquinelli, unica donna, tra i corsisti selezionati, a seguire la Scuola di Mistica Fascista. Più anonimo un ampio numero di donne, soprattutto della piccola e media borghesia, ma a volte provenienti anche dal proletariato, che trassero vantaggi di emancipazione sociale con sussidi e borse di studio elargite dal regime, attraverso varie opportunità di realizzazione nel mondo dello sport; attraverso ruoli legati all’ambiente politico fascista, maestre, educatrici, insegnanti, mogli di gerarchi, messe a capo di gruppi di dopolavoro, di sezioni femminili di partito; attraverso supporti medici dei Consultori e dell’Opera Nazionale Maternità Infanzia. Tutte legate, e rimaste legate al fascismo.

Ma Erminia Schellander, procuratrice legale con incarichi operativi finanziari, alle dirette dipendenze del Gauleiter Rainer; Augusta Reiss, ambigua figura di delatrice; e numerose figure minori di collaboranti fidate, i cui nomi emergono dalle carte dei processi, ci inquietano ancor più. Sono maschere scolpite con profondi chiaroscuri, che fanno paura e pongono domande. Che cosa le ha spinte? L’adesione ideologica al nazismo? Il privilegio del potere? La bulimia del possesso? Il miraggio della ricchezza? La sirena del lusso? O anche la fame e la miseria? L’irresponsabilità morale? Certamente esse si inscrivono nel quadro tragico del decomporsi della società, nella disgregazione totale di valori, propri del periodo di una guerra, in cui anche i civili, incluse le donne, erano tutti trascinati e coinvolti nella conflittualità totale.

“Le donne nere” non vanno sottoposte a facili giudizi. Le loro vite vanno contestualizzate e singolarmente decodificate in percorsi, in profili, che, visti da vicino, scopriamo pieni di abissi e di traumi, come appunto per Cristina Campo. Ciononostante la valutazione più generale ci porta a non costruire o a non aderire a diffusi stereotipi di genere, che contrappongono il fare delle donne a quello degli uomini, e sostengono pretestuosamente un agire femminile, sempre e comunque migliore. Una giusta distanza, un sano equilibrio, una valutazione serena portano soprattutto a “capire”. E tanto basta.