Intervista a Carlo Levi su Scotellaro

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Riportiamo, grazie alla cortesia dell’autore, l’intervista di Michele de Luca a Carlo Levi, rilasciata il 23 febbraio 1974 e finora inedita in Italia

di Michele De Luca

 

 

Come rivive, nella sua opera, l’ambiente e la società, il mondo in cui visse Rocco Scotellaro?

Il mondo di Rocco Scotellaro, che è lo stesso mondo che io avevo veduto, parecchi anni prima di conoscere Rocco, nel ’35 e nel ’36, in paesi vicinissimi al suo, a Grassano e ad Aliano, e non era modificato ancora, anzi era proprio quello in cui ha vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza Rocco Scotellaro che si ritrova ancora, visto più dal di dentro, vissuto giorno per giorno, ora per ora negli scritti di Rocco, in quelli giovanili in particolare, con il senso di quella sua tradizionale immobilità, poi invece con un senso nuovo di un movimento che modifica le cose e che le porta ad essere altre da quelle che sono.

Quali sono state, diciamo così, le manifestazioni che hanno consentito questo vostro avvicinamento e questa conoscenza?

Io ho conosciuto Rocco nell’inverno-primavera del ’46, quando lui aveva già letto il mio Cristo si è fermato a Eboli ed era già sindaco di Tricarico per la prima volta. Io ricordo sempre quel giorno in cui io che non conoscevo la sua esistenza arrivai a Tricarico per la prima volta e mi venne incontro un giovane che sembrava quasi un bambino, piccolo, rosso di capelli, che mi riconobbe proprio come uno dei personaggi della sua immaginazione, e passò l’intera giornata con me. Erano tempi di elezioni, le elezioni del ’46, e io dedicai tutta l’intera giornata a lui, scendemmo insieme a visitare tutti i quartieri più poveri di Tricarico, la Rabata, la Saracena, andando insieme a vedere la chiesa del Carmine con gli antichi affreschi dei fratelli Ferri, unici pittori, o quasi unici pittori del ’600 lucano, conobbi sua madre, mi fece entrare nella sua casa, quello che fu il punto di partenza di una che non posso chiamare neanche amicizia, ma addirittura certamente fraternità, come del resto scrisse Rocco in una pagina per me estremamente commovente dell’Uva puttanella, quando racconta come egli leggesse ai suoi compagni di cella in quel periodo nel carcere di Matera il mio libro Cristo si è fermato a Eboli e comincia il suo racconto dicendo: l’autore non è veramente un mio amico, e non è neanche un vostro amico, perché l’amico è l’avvocato, il deputato, il prete, questi sono gli amici che possono aiutarci, ma questo non è un amico, questo è un qualcuno che ha avuto la stessa esperienza che noi abbiamo avuto, e allora non è per noi un amico, ma un fratello, o un fratellastro a cui siamo legati dall’amore della nostra somiglianza, che io trovo la definizione non soltanto più bella e per me più emozionante dei nostri rapporti, ma è anche la definizione del rapporto di Rocco Scotellaro con il mondo. Cioè esiste questo senso della nostra somiglianza e dell’amore per la somiglianza, che si estende ai compagni, ai poveri, ai contadini, ma che si può allargare a tutti gli uomini dei quali si comprendono e si amano anche i peccati, anche il male, che è quello che fa di Rocco Scotellaro un personaggio straordinario e unico, che non è soltanto un politico militante, non è soltanto un poeta che racconta e che canta i valori del mondo in cui vive, ma è qualcuno che a questo mondo è legato proprio da questo unico rapporto possibile, che è un rapporto di somiglianza, di comune esperienza e quindi di fratellanza e di comprensione totale, comprensione che comporta anche la severità di giudizio, ma che insieme porta a questo rapporto che è un rapporto di identità e di distacco da chi ci è simile e uguale.

La produzione letteraria e poetica di Scotellaro, pur consentendo una revisione critica, mantiene una sua vitalità e validità?

Secondo me la produzione di Rocco Scotellaro acquista, agli occhi del lettore, valore più il tempo passa. Non è mai stata, secondo me, criticamente capita perché si è sempre cercato di inquadrarla in tendenze o in schemi nei quali Scotellaro non entra per natura, proprio perché il suo problema non è mai un problema letterario, è un problema politico, e un problema di vita nel medesimo tempo. Ed è forse l’unico esempio nella letteratura italiana di poeta che non è un poeta che parla di contadini perché gli piacciono, ma perché lui stesso è nato lì dentro, perché la sua natura è quella, perché non può che parlare di se stesso, e allora questa poesia non assomiglia a nessuna delle poesie, neanche del realismo, o dell’ermetismo o dello sperimentalismo, o di tutti gli altri ismi che sono andati per la maggiore in bocca ai critici in tutti questi anni. E soltanto oggi si riesce probabilmente a vederlo nella sua natura più vera, proprio perché certe vecchie polemiche, certe condizioni sono oltrepassate dai fatti, sono oltrepassate dallo sviluppo del pensiero e della critica stessa, e si può leggere la sua poesia senza essere ingannati da pregiudizi di ordine critico. E allora risulta chiaro il valore estremamente originale, direi unico, di una poesia che non è in nessun modo se non in margini trascurabili letteraria, ma è tutta quanta una col processo stesso della vita e con l’azione e con profondo sentimento nativo che viene proprio da un rapporto come quello che ho detto con le cose e le persone del mondo.

Con la sua gente, quando era sindaco, quando era poeta, scrittore, come si comportava, che tipo di rapporto proponeva, il dialogo che riusciva ad instaurare era molto comunicativo?

Estremamente comunicativo e come se avesse, direi, una capacità straordinaria di suscitare anche negli altri questa capacità di rapporto. Cioè con una comprensione che viene da quella posizione che ho spiegato, e con una straordinaria capacità di identificazione con il suo interlocutore. E del resto non per nulla egli è stato l’iniziatore e direi l’unico esempio di una forma nuova e moderna di inchiesta, da cui è fatto il suo libro Contadini del Sud, che non è l’inchiesta sociologica che si propone a un soggetto, che può essere un uomo o una categoria sociale, con delle domande a cui questi rispondono. è l’intenzione, del tutto realizzata secondo me da lui, per quanto la morte abbia poi interrotto il lavoro, l’intenzione di far nascere l’inchiesta dal di dentro delle cose, e di far parlare quelli che non parlano e di far raccontare la propria vita. E questo spiega la sua capacità di suscitare negli altri una presenza e un senso del valore della propria esistenza, che è la qualità stessa della poesia in fondo. Quei contadini che egli interrogava e di cui trascriveva sui foglietti le confessioni e i discorsi erano tutte persone che fino a quel momento non avevano neanche creduto di esistere, non si erano mai accorti che c’erano, e dal contatto con Rocco avevano avuto questo senso prezioso del loro valore e della propria esistenza. Tant’è vero che hanno continuato per anni a scrivere i racconti della propria vita anche dopo la morte di Rocco Scotellaro; io ho molti di questi quaderni dove i contadini raccontano la propria vita accorgendosi proprio per la spinta data loro da Scotellaro che queste cose esistono e hanno valore, cosa che loro non avevano mai sospettato prima. Cioè portare a far nascere alla vita, alla storia, alla presenza esistenziale; questo è, direi, un compito essenziale della poesia, il fatto di potersi riconoscere in un’immagine e di poter valutare il valore di questa immagine come un valore reale, esistente, è proprio la funzione poetica, che è insieme anche la funzione politica, che è anche la funzione dell’impegno morale e dell’esempio civile.